Esempi dal passato e speranza per il futuro

Di seguito l’intervento di Laura Arconti al 40esimo Congresso Straordinario del Partito Radicale tenutosi nei giorni scorsi presso il Carcere di Rebibbia.

Se io ora evoco una figura umana con un bavaglio, che cosa vi viene in mente?

È il 18 maggio del 1978, all’ora di cena, l’ora della Tribuna Politica in televisione. Sullo schermo appaiono Mauro Mellini e Marco Pannella, la bocca fasciata da un fazzoletto bianco, e davanti un grande cartello scritto a mano, immobili. Il silenzio è pesante e denso come una colata di cemento. La telecamera inquadra il cartello di Mauro “Bavaglio al Referendum” e il suo viso impietrito, poi passa su Marco e sul cartello “La Rai Tv abroga la verità e l’informazione”. Marco ti spara addosso quel suo sguardo color del cielo quando è senza nuvole, e quello sguardo ti si infila dentro e ti insinua la certezza che quell’uomo ha ragione. Poi entra in scena Emma Bonino, imbavagliata come i compagni, toglie il bavaglio a Marco e Marco la libera, e lei recita quello che deve, mitragliando parole velocissime con quella sua voce così giovane (non ha ancora trent’anni ed è deputato già da due, è ancora vestita da signorina di buona famiglia venuta da Bra, provincia di Cuneo, con la gonna e la camicetta). Dice che sono state raccolte le firme, che si dovranno votare i referendum e nessuno sa ancora su che cosa si voterà. Raccomanda di cercare sulla radiolina Radio Radicale: a Roma 88,5, a Torino 90. Poi parla Marco: a quel suo sguardo assassino si aggiunge la voce, e ti accarezza l’anima; sembra che parli con ciascuno dei milioni di ascoltatori della Rai, proprio come se parlasse soltanto per ognuno di loro: “Non sapevamo che fare, perché vi sia chiaro che dovete conoscere, per poter deliberare…”.

Diciotto mesi prima, il 4 novembre del 1976, il 17esimo Congresso aveva eletto segretaria del Partito Radicale Adelaide Aglietta: prima donna a rivestire il più alto incarico politico in un partito. Nel primo anno della sua segreteria aveva curato la raccolta delle firme sugli otto referendum, ed attuato – con Gianfranco Spadaccia – uno sciopero della fame di 73 giorni senza interruzione con l’obiettivo di ottenere la riforma carceraria ed il superamento del regime di carcere duro. La sera del 18 gennaio, Adelaide ascolta dal telegiornale la sentenza di non ammissione di quattro degli otto referendum. Nel suo libro autobiografico parla di rabbia, di disperazione, nel sentire la frase del telegiornale della sera: “La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili quattro degli otto referendum richiesti dai Radicali e sottoscritti da settecentomila cittadini. Si tratta dei referendum sul Concordato fra Stato e Chiesa, sui reati di opinione e sindacali del Codice Rocco, sui codici e tribunali militari”.

Dunque è stato tutto inutile? Scrive ancora Adelaide: “Avevamo fatto di tutto… Non avendo la vocazione di Jan Palach o dei bonzi buddisti, pronti a bruciarsi in piazza e candidati al martirologio, avevamo deciso, il 17 gennaio, di cessare le attività politiche nazionali del partito”. Un comunicato stampa chiariva le motivazioni di tale decisione: “Per una forza politica di opposizione che intenda essere nonviolenta, costituzionale, in queste condizioni non esistono più i margini per esercitare la propria funzione; l’unica via praticabile è ormai diffondere le lotte radicali e libertarie nelle città e nelle regioni, non più da Roma, dal centro”. A Torino c’è un clima pesante: si stanno cercando giudici popolari per il processo alle Brigate Rosse, e più di cento torinesi sorteggiati per far parte della giuria hanno presentato certificati medici per esserne esentati. La città è piena di poliziotti in borghese a bordo di auto comuni, e tuttavia le Br hanno ucciso l’avvocato Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, designato per la difesa d’ufficio dal presidente della Corte d’Assise. I brigatisti rifiutano il processo, a maggior ragione una difesa, e il disaccordo va regolato col mitra.

Dopo due anni di inutili tentativi, improvvisamente viene estratto il nome di Adelaide Aglietta. Adelaide ha paura, pensa alle due figlie adolescenti, ai genitori sempre così apprensivi: ma sente di dover compiere un dovere. Scrive, nel suo libro: “Marco Pannella mi sussurra una prima considerazione: era scontato… prima o poi dovevamo giungere all’appuntamento con i violenti. Quando tu non scegli i fatti, i fatti scelgono per te”. Adelaide accetta la nomina, rifiuta la scorta, telegrafa a Francesco Cossiga, ministro dell’Interno: “Signor ministro, le chiedo formalmente di dare disposizioni perché venga evitata assolutamente ogni e qualsiasi forma di tutela o vigilanza armata. Non conosco altra garanzia possibile di serenità e di sicurezza che quella derivante dall’assenza di armi e armati di qualsiasi tipo”. I compagni la proteggono ospitandola ogni sera in una casa diversa, perché il rischio di un agguato sia meno greve: l’esempio di Adelaide porta altri sorteggiati ad assumere l’impegno civile di garantire un processo equo. Il processo si tiene, si arriva alla sentenza. Quelli fra noi che hanno capito veramente la lezione di Marco hanno sempre agito così, ben consci della propria responsabilità individuale. Così ha agito Adelaide, quando ha trovato la forza di chiudere la sede romana e le attività nazionali del Partito, allorché la nostra politica libertaria e nonviolenta si era fatta impraticabile. Ma nel chiudere le attività nella sede centrale, Adelaide non intese certo lasciare che ciascuno degli iscritti decidesse linee di azione lontane dal metodo radicale, dai mezzi radicali, per raggiungere altri obiettivi: ha invece trasferito nei partiti radicali regionali la responsabilità di far vivere l’idea ed il progetto radicale. Si sono intraprese tante iniziative comuni: referendum, azioni nonviolente, lunghi satyagraha. Certo, c’era sempre qualcuno che era interessato a qualcos’altro, fossero problemi ecologici o animalisti o sindacali, ma non per questo mancava di collaborare a quella iniziativa che aveva riscosso - fra i compagni - il maggior numero dei consensi. C’erano militanti dovunque, che lavoravano sodo in serena prestazione gratuita e non chiedevano né si aspettavano riconoscimenti ufficiali o incarichi remunerati. Sì, alcuni se ne sono andati, hanno trovato casa altrove, o meglio hanno trovato “carriera”, altrove. Ma nonostante le fughe, ad onta delle diatribe sull’eterna vertenza fra radical-nonviolenti e radical-democratici (quasi che il nonviolento fosse l’opposto di un democratico): nonostante tutto questo, il Partito è continuato, continua a vivere, è ancora qui. Anche recentemente è riaffiorato il quesito: “E se chiudessimo il Partito?”. Il tesoriere, nella sua relazione, ci ha detto chiaramente che l’iniziativa politica radicale non può continuare, perché le iniziative condotte in questi ultimi cinque anni, dal 39esimo Congresso ad oggi, sia dal Partito che dalle entità costituenti che hanno utilizzato la sede e le strutture, hanno causato l’accumularsi di un debito di un milione di euro. In più il nostro principale strumento di lotta, quello che ha contrassegnato i più importanti momenti di accordo fra noi e l’opinione dei cittadini, il referendum, sembra usurato, mostra la corda, si è fatto impraticabile. Gli avversari esterni dicono che è a causa di un uso eccessivo che proprio noi avremmo fatto dei referendum; noi sappiamo che invece il referendum è diventato proibitivo perché un organismo politico che non ha rappresentanti nelle istituzioni non può contare su autenticatori delle firme, ed è proprio questo il metodo che la partitocrazia ha escogitato, per strappare dalle mani dei cittadini la facoltà di espressione e di controllo.

Se questo Congresso sarà vissuto con dignità, con lealtà, con coerenza ai princìpi e alla tradizione radicale; se i giornali e le tivù saranno capaci di raccontare questo Congresso in modo corretto; allora la gente capirà che soltanto il Partito Radicale ha a cuore la difesa dei diritti di tutti e ciascuno. In una parola, se gli italiani capiranno che “conviene” proprio a loro l’esistenza e la resistenza del Partito Radicale, allora un gigantesco referendum avrà luogo subito, senza bisogno di raccogliere le firme. Non sarà un referendum abrogativo (articolo 75 della Costituzione), sarà un referendum spontaneo, confermativo di fiducia. Cinquemila iscrizioni al Partito Radicale bastano per pareggiare il debito dovuto all’attività politica pregressa. Se saranno settemila, ci saranno anche i margini per riprendere immediatamente la lotta per la giustizia, per l’amnistia, per il diritto dei popoli a conoscere la verità sui fatti che li riguardano, per favorire una comune conquista di condizioni da Stato di diritto.

Voglio interpretare la speranza, io – la più vecchia di tutti i Radicali per età – voglio essere speranza: affido a tutti noi il compito di celebrare lealmente un buon Congresso, e ai cittadini il potere di confermarci la fiducia, iscrivendosi al Partito Radicale: sul sito www.radicalparty.org o con i mezzi che Radio Radicale ricorda ogni giorno, e – per i presenti – anche qui ed ora.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58