Ripensando a Moro attraverso Sciascia

Piaceva, a Leonardo Sciascia, “frugare” nelle cataste di libri degli antiquari, alla “caccia” di quella preziosa edizione francese, o di quell’acquaforte ritratto di uno scrittore ammirato e amato. Capitava di accompagnarlo in quel suo girovagare, come quella volta che, felice, aveva recuperato una ventina di volumi de “La Scala d’Oro”, libri che aveva letto e gustato da ragazzo, e che voleva leggessero e gustassero gli amati nipoti. E a dispetto dell’immagine-cartolina che lo vuole taciturno, immusonito, guardingo, era un parlare di tutto e su tutto, e con grande spirito di divertita e paziente ironia. Ma, anche, naturalmente, discorsi e conversare molto serio; come quella volta che, già nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, eletto deputato del Partito Radicale, racconta perché aveva voluto scrivere “L’Affaire Moro” che tante polemiche aveva sollevato; e poi perché aveva accettato di entrare nella Commissione d’inchiesta: “Volevo e voglio smascherare quello che mi pareva e mi pare un delitto.

Perché Moro è stato ucciso due volte: dalle Brigate Rosse e da coloro che lo hanno negato, che lo hanno disconosciuto, che hanno detto cioè di non riconoscere nel prigioniero delle BR il Moro di prima”. E ancora: “Quelli che lo hanno negato, non possono restare nascosti dietro la ragione di Stato. La ragione di Stato potevano anche difenderla, ma non dicendo che Moro era diventato un altro. Moro era rimasto indefettibilmente fedele a se stesso, a se stesso cristiano, soprattutto democristiano. Presentarlo come impazzito di paura è stato, cristianamente, umanamente, un delitto”. Nel ripensare a quelle parole, come non riconoscere che dobbiamo farli, eccome, i conti con Aldo Moro; e più propriamente, forse, si deve anche dire che Moro aspetta dal 16 marzo del 1978, che tutti noi si faccia i conti con lui. E sono tanti, a partire proprio dai suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita, da quel 16 marzo quando viene rapito dalle Brigate Rosse, al 9 maggio, quando viene ritrovato morto a Roma, dentro la famosa Renault rossa, in via Caetani.

In che senso fare i conti: nel senso che ne dà Leonardo Sciascia in una lunga intervista al settimanale francese “Le Nouvel Observateur” nel giugno del 1978: “Moro morendo, nonostante tutte le sue responsabilità storiche, ha acquistato un’innocenza che rende tutti noi colpevoli, dunque anche me. Sono rimasto molto scosso dalle sue ultime volontà, che mi rammentano quelle di Pirandello. Il fatto è noto... Pirandello era fascista, ma ha voluto essere sepolto completamente nudo per paura che lo vestissero con la divisa fascista, come avevano allora l’abitudine di fare per i dignitari del regime. Morendo, Aldo Moro si è, per così dire, spogliato della tunica democristiana. Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”.

Per “L’Affaire Moro”, che ancora oggi è di preziosa lettura, Sciascia patisce una delle innumerevoli “lapidazioni” che di volta in volta gli sono riservate da destra e da sinistra. Il punto centrale della questione è questo: si accredita, si è accreditato, un Moro di prima, “grande statista”; poi un Moro prigioniero che non ha il senso dello Stato. Moro uno e due, insomma. Una grande mistificazione. Aver accreditato, aver letteralmente inventato un Moro “grande statista” (mentre è stato un grande politico, ma senza il senso dello Stato, che ne aveva, per esempio, un Alcide De Gasperi), è quello che, per Sciascia, è il secondo delitto consumato; da chi, appunto, lo ha disconosciuto. Il punto centrale, il nodo del dramma: Moro anche in quei 55 giorni di prigionia è lucido e continua a pensare come ha sempre pensato; e lo si riduce a un “pazzo”, un “plagiato”. Ci è stata offerta in quei giorni quella terribile mistificazione. Moro è solo, negato, tradito.

È in quei 55 giorni, e attraverso le lettere che Moro può scrivere e far recapitare, che abbiamo il ritratto più autentico del personaggio: politico con due soli princìpi: la sua radicata fede cattolica e lo spirito di libertà. Per il resto, come osserva Sciascia, “c’erano la trattativa, la mediazione, la duttilità continua. Non era un uomo da cozzare contro la realtà. Era un uomo che qualsiasi realtà si proponeva di far ingoiare nelle sabbie mobili del cattolicesimo italiano”.

Per quel che riguarda il dover fare i conti con noi stessi: si tratta appunto di quel pantano, quella micidiale sabbia mobile fatta di mistificazione e conformismo che si muove contro il Moro senza più potere, e avvolge l’intero Paese, tutti noi. Innegabile, per esempio, che i principali mezzi di informazione si siano comportati ignobilmente, in quei giorni; per non parlare della classe politica, con pochissime eccezioni; e per tutti quei pochissimi faccio tre nomi: Bettino Craxi, Marco Pannella, Umberto Terracini, il Partito Socialista, il Partito Radicale, un comunista “eretico”, per il quale la verità contava sempre più e prima del partito.

Sciascia comincia sempre i suoi lavori con una frase emblematica che è un po’ il simbolo-guida di quello che vuole scrivere. “L’Affaire Moro” si apre con un paio di righe tratte da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”. Agghiacciante e terribile. Più oggi, forse, di allora.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:52