Le conseguenze della mini scissione renziana

Le mosse di Matteo Renzi sono spesso imprevedibili. Ma determinano, sempre, delle conseguenze politiche. Ora, con il varo della mini scissione “a freddo”, l’ex leader del Partito Democratico fa tremare il neonato Governo giallorosso. Tant’è vero che lo stesso Giuseppe Conte si è detto “allibito” della telefonata di Renzi. Già. Perché il senatore di Rignano sull’Arno ha voluto rassicurare il premier. Con il risultato di destabilizzarne lo stato d’animo. Un fatto è certo: quanto ai numeri, non ci sarà la diaspora prevista da Renzi per la costruzione del nuovo partito, il cui nome potrebbe essere “Italia del sì”, dal sapore fortemente antigrillino.

Il Pd, infatti, può contare su 162 parlamentari: i renziani alla Camera (considerando i fedelissimi e i deputati di Base riformista, la corrente guidata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini) sono oltre 60 su 111; al Senato 35-40 su 51 (sempre sommando le due correnti). Chi va nel nuovo gruppo parlamentare di Renzi? Tra i fedelissimi figura Luigi Marattin, accreditato come capogruppo renziano alla Camera. Ovviamente, seguiranno Renzi anche l’ex ministra Maria Elena Boschi e l’ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi. Ma ci sono anche Andrea Romano e Tommaso Cerno, ex direttore de L’Espresso. Il capogruppo al Senato Andrea Marcucci, almeno per ora, resterà al suo posto. Poi ci sono i governativi: la ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova, la viceministra Anna Ascani, i sottosegretari Ivan Scalfarotto e Salvatore Margiotta.

Ma Renzi è costretto a misurarsi anche con i “rifiuti” pesanti. In primis, proprio Lotti che, insieme al neo ministro della Difesa Lorenzo Guerini, non si muove dal gruppo dem. Poi, c’è il sindaco di Firenze Dario Nardella: “Io – sostiene – resto nel Pd. Ci ripensino: divisi siamo tutti più deboli”. Il nuovo contenitore politico dell’ex premier dovrebbe superare, seppure a fatica, la soglia dei 20 deputati, che alla Camera sono il numero minimo per costituire un gruppo autonomo. Numeri che si riducono tra 8 e 10 al Senato. Dunque, potranno confluire solo nel gruppo misto per questioni di regolamento.

Ma quanto “vale” il partito dell’ex premier? Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend, sostiene che in piena crisi di governo, ai primi di settembre, “la fiducia in Renzi era del 15-20 per cento. Un dato molto basso, che realisticamente accredita un partito che si richiama a Renzi intorno al 3-3,5 per cento”. Per Roberto Weber di Ixè, “la soglia del 5 per cento attribuita al partito di Renzi è piuttosto alta”.

Le critiche dell’opposizione rispetto alla decisione renziana sono inevitabili. Matteo Salvini scrive su Twitter che “Renzi, prima incassa posti e ministeri, poi fonda un ‘nuovo’ partito per combattere Salvini. Che pena, cosa non si fa per salvare la poltrona. Il tempo è galantuomo, gli italiani puniranno questi venduti”. Secondo il leader leghista, la mini scissione di Renzi “era una storia annunciata: quella di un Governo nato solo per la paura di andare al voto, di perdere la poltrona, contro la Lega e contro Salvini. Non pensavo di essere un incubo come mi ha definito Dario Franceschini: chi non muore, politicamente, si rivede...”.

Aggiornato il 17 settembre 2019 alle ore 13:35