L’indelebile imprinting e il suo statuto

È un dato di fatto come molti giornalisti, occupati in importanti quotidiani ed emittenti televisive, nonché influenti analisti e commentatori della vita politica italiana, abbiano fatto parte, nella loro età giovanile, del Partito Comunista italiano (Pci) o della Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) o abbiano intensamente collaborato con pubblicazioni dello stesso partito. Spesso mi chiedo, e forse non sono l’unico a farlo, se e quanto sia accettabile, quantomeno sul piano logico, che persone cresciute nel “centralismo democratico” del Pci possano ora salire sul pulpito e tenere più o meno abili sermoni sulla democrazia e la libertà adottando ad ogni piè sospinto l’aggettivo “liberale”.

Si dirà che è diritto di ognuno cambiare idea e che il loro passaggio dal Pci al Partito Democratico o ad altre formazioni non più comuniste è comunque da salutare con piacere. Tutto vero. È però da osservare che la tanto invocata “formazione politica”, che avviene appunto nell’età giovanile, non può non avere lasciato tracce. Infatti, questi novelli liberali dal passato marxista si sono ben adattati alla politica genericamente moderata del Pd, ma non hanno perso la loro matrice “combattiva” nei confronti delle opposizioni non di sinistra, verso le quali mantengono non una semplice differenza bensì un livore distruttivo, che ha conosciuto nel recente passato momenti di vera e propria delegittimazione radicale dell’avversario.

Per capire meglio da dove venga una simile tendenza, sarà utile dare un’occhiata allo Statuto del Pci del 1966, cioè quello che i tanti direttori, editorialisti e commentatori di cui sopra, devono aver conosciuto e accettato in quegli anni o nei successivi, fino agli inizi della crisi nel 1979. La prima impressione è certamente quella di un partito costruito come un esercito o, peggio, come un’istituzione altamente burocratizzata. Fra cellule, sezioni, federazioni, comitati, commissioni, uffici c’è da perdere la testa pensando alla marea di documenti, di riunioni e di pratiche che hanno occupato per anni migliaia di impiegati e di iscritti. Tutto questo, fra l’altro, potrebbe non essere estraneo al fenomeno della altrettanto elevata burocrazia del nostro Paese, nel quale non solo i partititi di Governo ma anche le varie opposizioni comuniste hanno fornito ai ministeri e agli altri enti di controllo statali, regionali e locali mano d’opera e modi di pensare a tutti i livelli.

Ma è nel contenuto che si trovano gli elementi più interessanti, quelli il cui sapore pedagogico non può non aver lasciato il segno. Nel preambolo si legge che il Pci “…mentre avanza su una via autonoma e nazionale — la via italiana al socialismo — attinge alla ricca e multiforme esperienza del movimento operaio internazionale, dell’Unione sovietica, della Cina popolare e di tutti i paesi di nuova democrazia e partecipa allo scambio di esperienze con i partiti comunisti e operai di tutto il mondo.” Siamo nel 1966, l’evento ungherese era passato da dieci e dopo due anni si avrebbe avuto quello cecoslovacco. Sempre nel Preambolo si comunica che l’adesione al Pci – e alla Fgci – “è volontaria, unitaria, basata sul fondamentale principio del centralismo democratico”. Un concetto, quest’ultimo, che ha indotto negli allora giovani iscritti un’idea della democrazia che, ancora oggi, si nota nei loro atteggiamenti verso l’opposizione o verso chi, comunque, non si dichiara di sinistra.

Nella sezione II al punto 5, si legge che l’iscritto ha il dovere di “difendere il partito da ogni attacco” e di “non divulgare le questioni riservate di partito”. Difficile non trovare in questi riferimenti un’aria un po’ cupa e minacciosa. Forme di difesa che si ritrovano poi all’articolo 57, nel quale si parla della stampa di partito, la quale “è diretta dal Comitato centrale; quella locale dal rispettivo Comitato federale” e deve “diffondere costantemente i principi del marxismo-leninismo, sostenere tutte le lotte delle masse popolari in difesa dei loro interessi, informare esaurientemente sui problemi e sui successi dei movimenti operai e progressivi di tutti i paesi e in particolare sui problemi e le conquiste dei Paesi socialisti”. Ma nella sezione 6 ecco spuntare la radice del “liberalismo” del quale si sono certamente nutriti gli attuali comunisti pentiti, poiché vi si afferma che ogni iscritto può “esercitare liberamente attività di ricerca filosofica, scientifica, artistica e culturale”, come se, tale diritto, dipendesse dalla magnanimità di un partito e non dalla Costituzione, oltre che dai diritti naturali di ciascun essere umano. D’altra parte, qualche limite vi deve pure essere. Per esempio, quello riservato alle donne, le quali “…sono organizzate in cellule miste tanto sul luogo di lavoro o di centro di vita culturale e associata che su base territoriale”. Per cui “solo in casi eccezionali è ammessa la costituzione di cellule femminili”.

La sezione 9, in tema di centralismo democratico, stabilisce che “la minoranza deve accettare e applicare le decisioni della maggioranza; le decisioni degli organismi superiori sono obbligatorie per gli organismi inferiori; non sono ammesse azioni che violano la linea politica e le norme dello Statuto” e “non è tollerata l’attività frazionistica né alcuna azione che possa rompere o minacciare l’unità e la disciplina del partito”. Pena, ovviamente, sonore sanzioni, elencate con scrupolosa gradazione in ben 6 livelli a) il richiamo orale; b) il biasimo scritto; c) la destituzione dalla carica; d) la sospensione dal partito da uno a sei mesi; e) la radiazione dal partito; f) l’espulsione dal partito. La sezione 43, fra le finalità della Commissione centrale di controllo, indica il suo dovere di “collaborare col Comitato centrale (quello superiore, NdR) per fissare l'orientamento generale delle scuole di partito centrali, regionali e locali; collaborare col Comitato centrale alla educazione ideologica, allo sviluppo, all'impiego dei quadri del partito”. Ecco ora, alla sezione 23, la necessaria introduzione della figura del funzionario di partito, poiché “il carattere di massa del partito e la complessità delle funzioni che esso è chiamato ad assolvere, l’esperienza storica che ha reso evidente l’utilità e l’importanza del rivoluzionario professionale, esigono che un certo numero di compagni dedichino tutta la loro attività al lavoro di partito in qualità di funzionari”. Insomma, la rivoluzione deve essere assistita dal lavoro d’ufficio che deve sbrigare migliaia di pratiche, problemi locali, controversie e naturalmente l’incessante lavoro organizzativo. Una bella introduzione alla società iper-burocratizzata.

Infine la tessera che, all’articolo 59 della sezione XIV, è descritta come “…il documento di partito più prezioso: ogni comunista deve accuratamente custodirla, continuamente portarla con sè, presentarla e mostrarla con fierezza a tutti i lavoratori”. Magari mentre si canta uno degli inni prescritti dallo statuto, all’articolo 60, per le varie manifestazioni pubbliche, fra cui l’Internazionale, l’Inno dei lavoratori, l’Inno di Mameli e Bandiera Rossa. È chiaro che questa breve panoramica descrive un fenomeno politico che proviene da un passato che percepiamo come superato. Ma va anche sottolineato che nessun giovane di cultura, in senso lato liberale, sarebbe mai entrato, in quegli anni, in una simile caserma in cui l’ideologia e la strategia si coniugavano in termini così terribilmente duri e senza respiro. Eppure, molti loro coetanei, che ora respirano felicemente l’aria della libertà di parola al punto di porsi come maestri del pensiero critico, vi hanno creduto, vi sono cresciuti e non di rado ne vanno persino orgogliosi. Il minimo che si può dire è che la loro autorevolezza, anche se spesso non è disprezzabile sul piano della preparazione professionale, non può certo contare sulla formazione che hanno ricevuto. Soprattutto quando pretendono di indicare quelli che essi intendono come i “veri” nemici della libertà e della democrazia.

Aggiornato il 22 gennaio 2021 alle ore 09:44