In Europa si comincia a capire: i muri servono

La costruzione di barriere ai confini in funzione anti-migranti – i cosiddetti muri – non sembra più essere una prerogativa delle autocrazie di estrema destra, come quella ungherese e polacca. Questo modello inizia a essere rivalutato un po’ ovunque in Europa, anche in quei Paesi da sempre considerati dei fari di civiltà e di progresso, come quelli scandinavi. La crisi afghana e la riapertura della rotta balcanica, unitamente alla ripresa dei viaggi attraverso il Mediterraneo e ai sempre più frequenti assalti alle enclavi spagnole in Marocco, hanno probabilmente aumentato il timore per i flussi migratori incontrollati. Dodici Stati membri dell’Unione (Austria, Danimarca, Ungheria, Grecia, Bulgaria, Lituania, Polonia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Cipro) hanno sollecitato Bruxelles a finanziare la costruzione di barriere fisiche ai confini dei vari Stati, onde consentire a ciascuno di essi, nell’interesse della stessa Unione, della sua sicurezza interna, della sua stabilità sociale e del funzionamento dell’area Schengen, di proteggere in maniera efficace e appropriata le frontiere nazionali ed europee.

Tale richiesta di mettere a disposizione dei vari Stati dei fondi comunitari per la costruzione di muri ha già incontrato l’opposizione della commissaria agli Affari interni, la svedese Ylva Johansson e del Consiglio europeo, i quali sostengono che già esista il diritto, per ciascuno Stato, di controllare i flussi migratori e difendere le proprie frontiere nella maniera che ritiene più opportuna, pur nel rispetto delle regole e dei trattati europei, e aggiungono che vi sono già molti progetti in discussione per dirimere l’annosa questione delle migrazioni incontrollate. Viceversa, l’idea della “fortezza Europa” sembra piacere al presidente del Consiglio dell’Unione europea, Janez Jansa e in Italia incontra l’approvazione del leader della Lega, Matteo Salvini, che plaude all’iniziativa e si domanda cosa aspetti l’Italia a far sentire la sua voce in questo senso. Domanda legittima, sebbene destinata a restare senza risposta.

L’Italia, infatti, come la Francia e la Germania, si guardano bene dall’appoggiare simili iniziative (che acquisirebbero un peso decisamente maggiore, se venissero sostenute dai “big” dell’Unione) preferendo, invece, concentrarsi su modellialternativi”, come la ricerca di intese con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti, al fine di fermare le partenze e facilitare respingimenti e rimpatri. Di tale avviso è la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, che spiega come sia di fondamentale importanza puntare sui partenariati coi Paesi del Nord Africa, anzitutto Libia e Tunisia. Si ravvisa una certa ipocrisia nella scelta di deprecare i muri e di invocare poi, di fatto, la loro costruzione in Africa, dove nessuno può vederli e dove, di certo, non farebbero notizia come quelli ungheresi o polacchi. Sembra quasi un grossolano tentativo di ripulirsi la coscienza. Non c’è, infatti, molta differenza tra respingere i migranti alla frontiera e pagare i libici (o chi per loro) per impedirgli di partire e per tenerli all’interno dei loro confini.

Quello che sembra mancare ai leader europei – tanto per cambiare – è il coraggio delle proprie scelte e delle proprie azioni. Il principio che andrebbe affermato, una volta per tutte, è che l’Europa non è la “terra promessa” per tutti i disperati del mondo e che è possibile accogliere solo chi viene per lavorare onestamente e per integrarsi: non deve esserci posto per chi vuole vivere alle spalle dei contribuenti o non è disposto rispettare le nostre leggi e i nostri costumi. Certo, è naturale che gli italiani preferiscano questa seconda strategia, dato che la maggior parte degli immigrati che entrano nel nostro Paese lo fanno via mare, sebbene non sia da escludere l’idea di muri galleggianti, come fatto dalla Grecia: metodo che sembra stia portando dei notevoli risultati in termini di diminuzione degli arrivi e che gli italiani potrebbero ben imitare per chiudere la rotta verso la Sicilia. Le due cose non sono minimamente contrapposte: l’una è il logico corollario dell’altra. Come si difendono i confini terrestri, bisogna presidiare anche quelli marittimi.

Un’ottima soluzione potrebbe essere integrare i muri con il ritorno alla politica del Governo Berlusconi sugli accordi bilaterali, per cui si pagavano i libici o i tunisini per impedire le partenze e per effettuare respingimenti “coordinati”. Di più tale politica potrebbe essere applicata anche alle procedure di rimpatrio dei clandestini e dei non aventi diritto, i quali verrebbero consegnati alle autorità libiche e tunisine che poi provvederebbero a riportarli nel Paese d’origine. Costruire muri per difendere i propri confini dagli ingressi non autorizzati non è di destra o di sinistra, ma una scelta di prudenza e di buonsenso, che tutti dovrebbero avere il coraggio di fare. Lo dimostra il fatto che a rivolgere una simile istanza a Bruxelles non siano stati solo i Paesi governati dai nazionalisti, come l’Ungheria, o dai conservatori, come la Grecia, ma anche quelli governati da forze socialdemocratiche e progressiste, come la Danimarca (la cui sinistra politica, almeno per quanto riguarda l’immigrazione, dovrebbe essere presa a esempio da quella nostrana). Chi ha seguito le varie iniziative del Governo danese sulla questione dell’immigrazione e del multiculturalismo sa bene che non hanno nulla da invidiare alle proposte della Lega o di Fratelli d’Italia: dal divieto del burqa fino al taglio dei sussidi agli immigrati che non lavorano, passando per i percorsi di integrazione obbligatori nelle scuole e la politica contro i “ghetti”.

Se in Danimarca vuoi stare, da danese ti devi comportare: il senso della politica dei socialdemocratici del Paese scandinavo è questo. Una politica che qualunque conservatore potrebbe condividere. Mettere a punto dei dispositivi per un rigido contenimento dei flussi migratori non è nemmeno un’istanza estremista: le forze moderate, proprio in virtù del loro ispirarsi al valore della prudenza e dell’equilibrio, dovrebbero essere in grado di comprendere che l’immigrazione a grandi numeri è qualcosa che introduce nelle società che la ricevono dei cambiamenti radicali e repentini, che la pone dinanzi a sfide e trasformazioni alle quali potrebbero essere impreparate e che questo potrebbe avere dei risvolti imprevedibili e drammatici. Non ha senso dirsi moderati, se poi non si fa nulla per impedire che la comunità sia destabilizzata o forzata a un cambiamento per la quale non è pronta, per di più sulla base di un’ideologia sciocca e miope come l’immigrazionismo. La difesa dei confini è un’istanza neutrale: ha a che vedere unicamente con l’assennatezza dei governanti, non col colore o la collocazione politica. Perché non serve essere di destra o di sinistra per capire che l’immigrazione senza controlli e senza regole è un fattore di destabilizzazione sul piano dell’ordine pubblico, come dell’economia e dei costumi, e che deve essere gestita avendo come valore direttivo la sicurezza intesa in senso ampio e generale: ossia, come sicurezza rispetto al crimine o alla tenuta del sistema socio-assistenziale, ma anche come sicurezza rispetto alla conservazione dei valori, delle tradizioni e dei costumi che guidano una comunità e che costituiscono degli importanti punti di riferimento per le persone.

E l’umanità? L’atto più umanitario che si possa compiere, quando si tratta di immigrazione, è avere rispetto per le vite dei propri cittadini, prima di ogni altra cosa. Quando si parla di umanità, infatti, c’è sempre una certa tendenza a dimenticare che gli esseri umani non sono solo quelli che premono ai confini, ma anche quelli che, al loro interno, temono per la loro vita e per il loro futuro. Disumano è considerare solo le ragioni degli uni a discapito di quelle degli altri, non meno sensate. Non rinneghiamo i nostri valori, come ha sostenuto il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, perché non può esistere libertà, come non può esistere democrazia o stato di diritto – e nemmeno valori umanitari – senza sicurezza e senza pace civile. Garantire la legalità e la sostenibilità dei flussi migratori, anche con metodi apparentemente drastici, come la costruzione di muri, è necessario anche e soprattutto per difendere i nostri valori europei e occidentali. Se siamo quello che siamo, cioè una civiltà libera e democratica, è solo in virtù della nostra tradizione culturale e politica, nella quale sono radicate le nostre istituzioni. Ciò che mette a rischio questa tradizione mette a rischio anche la nostra libertà e la nostra democrazia.

L’immigrazione senza controlli e senza strumenti capaci di assicurare una efficace integrazione dei nuovi arrivati (sono loro a dover assimilare i nostri costumi e i nostri valori, non noi a dover assimilare i loro o ad accettarli anche quando stridono o si contrappongono ai nostri) compromette inevitabilmente questo stato di cose e, con esso, anche la nostra civiltà liberale e democratica. Difficile pensare a un’Europa che conserva i propri valori fondamentali anche una volta islamizzata e divenuta terra di scorribande per un numero imprecisato di terzomondiali. Quindi, ben vengano quei muri che, come i muri di una casa, non sono segno di disumanità o di chiusura egoistica, ma di amore per il proprio popolo e la propria civiltà.

Aggiornato il 11 ottobre 2021 alle ore 10:01