Quando l’etichetta “sovranismo” è correlata a un risultato elettorale sgradito

Chiose a margine di una recente intervista dell’ex presidente della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, teorico in passato della subordinazione del Parlamento alla giurisdizione e oggi, in aggiunta, del totalizzante “primato” del diritto Ue sulla Costituzione.

L’imminente formazione di un governo in Italia che sia esito coerente del voto del 25 settembre ha ridato fiato a chi è turbato dai rischi di derive euroscettiche, che conducano la nostra nazione a condividere le censure inflitte dall’Ue a Polonia e Ungheria, piuttosto che mantenerla saldamente avvinta agli ancoraggi di Francia e Germania. La versione “nobile” di tale preoccupazione risiede nella contestazione preventiva ai futuri titolari di Palazzo Chigi di minare le fondamenta dell’Unione Europea nel momento in cui affermano il primato del diritto nazionale su quello europeo, che essi vorrebbero costituzionalizzare con la modifica dell’articolo 11 della Costituzione, che prevede appunto il rispetto per l’Italia dei trattati internazionali.

È questo il caso, fra gli altri, dell’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, il quale, nell’intervista a Repubblica del 2 ottobre, traendo da tale norma costituzionale “uno dei suoi princìpi fondamentali”, l’internazionalismo, posto dai Costituenti in consapevole opposizione al “nazionalismo” del regime precedente”, ammonisce: “Il nazionalismo, o sovranismo che dir si voglia, non è una riforma dell’internazionalismo. Ne è la contraddizione. Non avremmo una Costituzione modificata, ma un’altra Costituzione, nemica della prima”.

Orbene, a prescindere dalla eccessività, nell’ambito scientifico della dottrina costituzionalistica, della tesi per cui il diritto costituzionale italiano avrebbe abdicato a favore di quello europeo, tale interpretazione appare contestabile anche alla luce della nostra stessa giurisprudenza costituzionale, che, dopo avere affermato l’esistenza dei c.d. controlimiti dei princìpi fondamentali dell’assetto costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (cfr. sentenze n° 129/2006 e n° 284/2007, nonché ordinamento n° 454/2006), con la sentenza Taricco del 2018 ha concretamente affermato la primazia del nostro ordine costituzionale interno, peraltro non solo in punto di “principio di legalità in materia di reati e pene” che “attiene al cuore dello Stato di diritto”.

Con la cosiddetta Taricco la Consulta ha rigettato la pretesa della Corte di Giustizia con sede nel Lussemburgo di non considerare la prescrizione prevista dall’ordinamento italiano per alcuni reati fiscali: lo ha ricordato lo stesso Zagrebelsky nell’intervista citata, e lo richiama più generalmente il principio di proporzionalità e attribuzioni per cui, ad es. la Ue ha legittimazione di politica monetaria – peraltro, per i soli Paesi dell’Eurogruppo – ma non anche, più in generale, fiscale ed economica, in conformità alla previsione di cui agli art. 3, 4 e 5 del Tue-Trattato dell’Unione europea.

Ciò accade “nel momento in cui” questo – secondo Marta Cartabia, già anch’ella presidente della Corte Costituzionale, oltre che Guardasigilli uscente – “riprende una formula contenuta nella sentenza Bverfge (la Corte costituzionale tedesca) 37,271 per vincolare l’Unione al rispetto della identità costituzionale degli Stati membri”, e così “condiziona l’applicazione del principio del primato e legittima (anche dal punto di vista dell’ordinamento europeo) quella lettura del primato che attribuisce alle corti costituzionali nazionali la possibilità di bloccare l’applicazione della norma europea a scapito della norma interna fondamentale” (“Unità nella diversità”: il rapporto tra la costituzione europea e le costituzioni nazionali, su www.giustamm.it, citato in “Competenza e gerarchia nella sentenza Lisbona del Tribunale federale tedesco: verso un diritto costituzionale asimmetrico?”, Fausto Vecchio, in Quaderni Europei, 2010). 

In realtà, la pretesa di difesa dell’ordinamento costituzionale nazionale e i conseguenti limiti del primato europeo è tutt’altro che riferibile solo “a ciò che è già accaduto in Ungheria e in Polonia rispetto al diritto dell’Unione, e alla Russia con riguardo al sistema di tutele dei diritti che fa capo alla Corte di Strasburgo” (ibidem), ma introduce a una linea di faglia della giurisprudenza costituzionale anche di altri Paesi Ue, tra cui in primis la Germania.

La Corte di Karlsruhe, sin dal 1993, con la sentenza Maastricht-Urteil, con cui la Ue è stata qualificata come Staatenverbund – associazione di Stati nazionali sovrani, “Signori dei trattati” priva di Kompetenz-kompetenz, cioè della competenza di attribuirsi le competenze – come confermata dalla sentenza Lisbona del 2009 – ha affermato la propria legittimazione a valutare norme UE eventualmente rese ultra vires, cioè al di fuori del perimetro delle competenze assegnate dai Trattati all’Unione Europea e a controllare il rispetto dei princìpi di attribuzione (Ultra-vires Kontrol), per infine arrivare con la “dottrina Solange” a ritenere tale proprio controllo, in via più generale, in termini di possibile lesione di fondamentali principi della Costituzione tedesca (Verfassungsidentitat Kontrol).

Lo ha fatto con la ormai famosa pronuncia del 5 maggio 2020 sul Quantitative easing della Bce-Banca centrale europea, a tutela della sovranità del popolo tedesco, potenzialmente lesa da impegni di debito garantiti dalla Banca centrale senza il controllo del Parlamento tedesco; lo ha fatto ancora quando, contestando il programma di aiuti contro gli effetti economici della pandemia da Covid-19, il Next Generation Ue, pur superando l’iniziale blocco al Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza tedesco, ha precisato che al Recovery fund “si applicano i limiti per quanto riguarda il volume, la durata e lo scopo dei prestiti per i quali la Commissione europea è autorizzata, nonché per quanto riguarda le possibili passività sostenute dalla Germania. Inoltre, i fondi in questione devono essere utilizzati esclusivamente per affrontare le conseguenze della crisi del Covid-19”.

Ciò allo scopo di evitare di compromettere il diritto sovrano del Parlamento tedesco sul bilancio nazionale, esposto a passività decise autonomamente dalla Commissione, da cui potrebbero derivare aggravi per i contribuenti tedeschi. Su questo si fondava la lamentata lesione dell’identità costituzionale del Paese, nel qual caso “il governo federale, il Bundestag ed il Bundesrat dovrebbero prendere le misure a loro disposizione per ripristinare l’ordine costituzionale”.

Orbene, il richiamare la Germania come epicentro di tale, tutt’altro che pacifica, relazione fra la sovranità dei singoli Stati, rappresentata dal proprio ordinamento costituzionale, e il diritto europeo, introduce alla ben più preoccupante recente comunicazione del governo tedesco di porre mano a un indebitamento straordinario per aiutare cittadini e imprese nazionali a sopportare i rincari dei costi energetici, contemporaneamente ponendo il veto alla richiesta di un price cap (tetto massimo) europeo al prezzo del gas.

Infatti, aldilà – nel merito – della bontà di tale possibile risposta agli sconsiderati aumenti delle materie prime, promossa a livello europeo soprattutto dal premier italiano uscente Mario Draghi, la posizione della Germania si connota pericolosamente come una sortita solitaria e aliena da qualsiasi processo di concertazione con gli altri Paesi membri, per di più in materia di sicura competenza e interesse “internazionali”. Voler nascondere il rischio di tale potenziale sfaldamento della coesione della Ue sotto il tappeto del buon ordine dei conti pubblici tedeschi, che consente loro di affrontare il caro-bollette con un indebitamento straordinario che l’Italia, per esempio, non si può permettere a causa del proprio disavanzo nel rapporto fra Pil e debito pubblico (allo stato, oltre il 150 per cento), nasconde il pregiudizio ideologico di ritenere applicabile il primato europeo solo per imporre più adeguato “livello di protezione”.

Il passaggio decisivo dell’intervista al presidente Zagrebelsky è perciò il seguente: “Chi stabilisce dove sta la maggiore protezione? – così egli afferma – Faccio tre esempi che riguardano sia il diritto italiano sia quello europeo: l’aborto l’eutanasia e la condizione dei migranti. Per l’aborto deve pesare di più il diritto di autodeterminazione della donna o quello alla vita dell’embrione? Per l’eutanasia è più conforme alla dignità dell’individuo la libertà di decidere di porre fine alla propria vita nei casi estremi oppure la protezione del valore della vita in qualsiasi caso, fino a quando la morte non sopraggiunga da sé? Infine, per i migranti prevale il diritto all’accoglienza oppure i diritti dei cittadini a difendere “la casa propria”? Si capisce a prima vista che su questi temi è decisivo non quale sia il maggiore o minore livello di protezione, ma chi decide in proposito: l’Europa o lo Stato nazionale. Tutti parlano di diritti, il linguaggio dei diritti è universale, ma la concezione di essi cambia a seconda dei governi e delle loro politiche. E noi, a questo riguardo, stiamo probabilmente per sperimentare un salto nel vuoto o, peggio, un salto nel buio”.

Il buio del popolo bue che ha malamente votato i propri rappresentanti non allineati con il sinedrio progressista di Bruxelles? L’ex presidente della Consulta ne è ben convinto, se apre l’intervista rilevando come “le scelte elettorali si sono orientate, mi pare, più per preoccupazioni, sentimenti e risentimenti immediati e concreti che per considerazioni istituzionali”: lo stigma lanciato sulle motivazioni del voto ha l’evidente funzione di prescindere da esso. In questo egli è coerente con quanto scriveva già trent’anni fa: “molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte” (Gustavo Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino 1992, pagine 201-203).

Già allora l’aggiramento dell’autorità democratica rappresentativa era proposto come qualcosa di salutare e di raccomandabile: il luogo della decisione non è bene che sia ancora il Parlamento, perché in esso avvengono scontri di parte (ciò che per la verità costituisce un profilo fisiologico, non patologico: le Assemblee elettive rappresentano le differenti posizioni esistenti nel corpo sociale). È opportuno invece che passi al giudice, in quanto gestore di una “procedura” soft e meno conflittuale; e dal giudice europeo, meglio che da quello nazionale.

Ma siamo veramente sicuri che gli euroburocrati ovvero i superiori giudici della Corte di Giustizia europea siano, di per sé, più illuminati ed illuminanti al riguardo? È “sovranismo” assumere che, pur nel rispetto delle attribuzioni e competenze degli organi direttivi dell’Unione rispetto agli Stati membri, i Parlamenti nazionali debbano rimanere i rappresentanti esclusivi della volontà del popolo sovrano, specie in materia di vita o di morte?

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 06 ottobre 2022 alle ore 16:49