L’adattamento al clima

Il 17 febbraio 2010 l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, pubblicò un pezzo che è rimasto nella storia del giornalismo sul cambiamento climatico, intitolato “Global weirding is here”, ovvero “l’imbizzarrimento del clima è qui”. Nell’articolo, Friedman scrisse fondamentalmente due cose: la prima era che “sebbene ci rimane una montagna di ricerca da fare da parte di a molteplici istituzioni sulla realtà del cambiamento climatico, il pubblico è sempre a disagio. Cosa c’è di reale? A mio parere la comunità scientifica sul clima dovrebbe far incontrare i suoi migliori esperti e produrre un semplice report di 50 pagine, e intitolarlo “What we know”, “cosa sappiamo”, in una sintesi di ciò che davvero sappiamo sul cambiamento climatico”.

La seconda, invece, puntava sul fatto che lui preferiva parlare di “imbizzarrimento globale” a “cambiamento climatico”, perché quello che noi vediamo realmente è un “imbizzarrimento del tempo”, e usava la parola “weather”. “Weather” non si utilizza per il clima globale. Si tratta del tempo atmosferico che qualunque individuo vive a livello locale, e che, in un approccio individuale, dettato dagli anni di esperienza e di vita, può solo decretare “what I know”, ovvero che cosa realmente io so del clima e che cosa al clima stia avvenendo, se davvero stia cambiando e come.

Da allora, e ancor di più, da quando nel novembre 2010 riascoltai Friedman, che ribadì le stesse cose in diretta dal palco del Global Climate Summit di Los Angeles, al quale avevo avuto la fortuna di partecipare come Senior advisor del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, cominciai a convincermi che all’approccio para-scientifico sul clima bisognasse sostituire un approccio pragmatico e anche politico. Del resto, l’Ipcc – suprema autorità sul clima – non è mai stato un organismo scientifico ma è, a tutti gli effetti, un organismo politico. Le sue dichiarazioni sono teorie e stime probabilistiche, cui qualcuno di molto potente ha voluto, sin dagli inizi del suo funzionamento, dare il crisma della “santità” scientifica.

Solo chi conosce approfonditamente l’approccio al Climate change sa che, in particolare, vi sono due filoni di attività, di ricerca, di studio sugli effetti del clima, di azioni da intraprendere: mitigazione e adattamento. Il primo punta a evitare o a limitare il surriscaldamento del clima globale, attraverso la progressiva riduzione delle emissioni di Co2. Il secondo, posto che esistano impatti (o pressioni) chiari e provati del cambiamento climatico sull’ambiente, sulle persone e sulle società, si occupa di mettere in atto tutto ciò che riduce questi impatti o li elimina completamente. Il primo filone fa piani a lunga scadenza. Il secondo avrebbe dovuto attivarsi a scadenza immediata.

Torniamo dunque a Thomas Friedman e ai fenomeni provati. Il suo “cosa sappiamo”, in quest’ottica, va senz’altro circoscritto agli impatti del clima sull’uomo e sulla società. E, comunque, avrebbe dovuto spostare la mitigazione sullo sfondo delle attività di contrasto al “clima imbizzarrito”, per affrontare in primis dati reali, emergenze chiare, a volte dagli effetti devastanti o quantomeno evidenti, dando forza alle attività di adattamento, in attesa di comprendere meglio, e davvero scientificamente e pragmaticamente, quale fosse la reale direzione del cambiamento globale.

In secondo luogo, invece di un generico surriscaldamento climatico globale, le azioni di adattamento avrebbero dovuto avere un raggio d’azione “locale”. In Italia, ad esempio, da sempre si attende di avviare sistematicamente attività mirate alla riqualificazione dei suoli, all’erosione costiera, alla difesa dal dissesto idrogeologico, alla lotta alla siccità e alla desertificazione, a grandi opere di canalizzazione per assicurare l’approvvigionamento idrico e a difesa dalle inondazioni, al rimboschimento. Tutto questo contribuirebbe ad allontanare dall’Italia lo spettro di nuove catastrofi naturali, da sempre il nostro tallone d’Achille.

Ma l’allarme globale sulle necessità di adattamento all’imbizzarrimento del clima a livello locale ci salta addosso quando continuiamo a registrare che “ogni anno 14mila bambini sotto i cinque anni muoiono per annegamento in Bangladesh, seconda causa di morte” (dati Unicef del 26 luglio 2022). Un quinto della popolazione in quel Paese è infatti a rischio inondazione: si tratta di 110 milioni di persone.

La spesa annuale per investimenti globali in ambito climatico, nel periodo 2019-2020, ha raggiunto 632 miliardi di dollari annui. Sono spese per infrastrutture, efficienza energetica, transizione ecologica, finalizzate alla costruzione di una economia low-carbon, per passare dai carburanti fossili alle rinnovabili. Il 99 per cento di questi finanziamenti riguardano Paesi occidentali e la mitigazione, con un impatto sulla pretesa speranza di deviare il corso del “climate weirding” molto prossimo allo zero, dato che quella porzione di mondo che conta 8 miliardi di abitanti – e che non è l’Europa o il Nord America – non contribuisce affatto a questa sfida. Dunque, per fare i primi della classe, o meglio, i secchioni della “compliance climatica”, il Vecchio Continente ha adottato misure draconiane per decarbonizzarsi, utilizzando il portafoglio sempre più magro della sua middle class, trasformando l’Europa nella Ztl del mondo, pur essendo già il Continente a minor impatto ambientale rispetto al proprio Pil.

Si è trattato, in altre parole, di investimenti che hanno avuto una profittabilità solo grazie all’infrastruttura politica che li sorregge da vent’anni. Per quanto riguarda l’Italia, gli investimenti sono resi possibili da una raccolta di miliardi proveniente dai consumatori (dal sistema delle bollette), da produttori di carburanti fossili (cosiddetta carbon tax) e da altro denaro pubblico. E vengono drenati dal sistema dei produttori di energia rinnovabile, che fa registrare da anni extraprofitti stellari e che indirizza, spesso, gli investimenti “green” all’estero, salvo non pagare le tasse nel nostro Paese, avendo spostato altrove la propria sede. Insomma, da anni si assiste a un progressivo impoverimento del Paese proprio grazie al sistema della mitigazione, senza che la sfida del contenimento del riscaldamento entro i due gradi di aumento abbia alcuna speranza di successo. A questo drenaggio di fondi per la mitigazione si aggiungeranno 1500 miliardi stimati – sempre per l’Italia – per ottemperare al capitolo efficienza energetica e impronta ecologica delle abitazioni imposta dalla direttiva Epbd del 9 febbraio 2023.

Ebbene, sin dai tempi del protocollo di Kyoto (1994) un capitolo infinito di letteratura cosiddetta “grey” (o grigia), ovvero l’insieme dei testi non pubblicati su libri, ma digitale o da brochure, è stata dedicata al problema di come finanziare l’adattamento, settore che non prometteva gli stessi ritorni economici. Alla fine, l’unico sistema è stato di associare i rientri dagli investimenti in mitigazione a una quota destinata all’adattamento. Recentemente, lo stesso Wef ha lanciato la buona novella: “Si tratta di spendere 2 trilioni di dollari, ed è un mercato – ha segnalato la voce di “Davos market” – che il settore privato non può ignorare”. Come dire: finora abbiamo scherzato, l’imbizzarrimento del clima non risparmia niente e nessuno, trilioni e trilioni sono passati di mano in 30 anni, ma gli impatti dell’emergenza climatica sulle nostre vite deve ancora essere finanziata.

Se si pensa che il piano italiano di adattamento alla crisi climatica è stato licenziato solo all’inizio di quest’anno dal ministero dell’Ambiente, con un ritardo di 30 anni, e se si lancia l’allarme che tra i sei capitoli del Pnrr non vi sia alcuna traccia di azioni finalizzate all’adattamento al clima locale, si comprende come esista davvero un problema politico, in Europa e in Italia. Tra i 209 miliardi ottenuti dall’Italia sono contemplate, infatti, risorse dedicate a incentivare la sostenibilità sociale ed economica, con interventi che coinvolgono aree come l’agricoltura, la gestione dei rifiuti, l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili e la biodiversità del territorio, ma non si menzionano neanche lontanamente quei necessari investimenti sul dissesto e sull’uso sostenibile delle acque, o sull’afforestazione che attendono da anni un massiccio intervento pubblico e privato. A Roma, al contrario, è in atto da vari anni una massiccia deforestazione specie ai danni dei suoi meravigliosi pini celebrati da Ottorino Respighi.

Il Pnrr, quindi, quando vi erano ampi margini per farlo, restando nei binari “climatici” e della “compliance” agli accordi internazionali, non è stato negoziato nell’interesse degli italiani: si è rivelata, così, un’occasione perduta drammaticamente. Occorre, insomma, una offensiva politica che rilanci un uso delle risorse disponibili a beneficio non di grandi investitori noti e meno noti, ma di quei territori e di quella parte della popolazione che della cosiddetta “crisi climatica” subisce gli effetti nefasti. Tenendo conto che, in un contesto business as usual, una volta compiuto lo scempio finanziario rispondente al nome della “mitigazione”, avverrà anche quello sull’adattamento, tramite, ad esempio, apposite “tasse sui potenziali disastri, sulle potenziali frane e o sulle potenziali inondazioni”, che mostrerebbero solo come in Italia le principali funzioni statali, nazionali o locali, che dovrebbero prevenire gli effetti avversi di qualunque natura, siano completamente allo sbando.

Aggiornato il 14 febbraio 2023 alle ore 12:14