Lo ha detto Bruxelles! ma non è vero…

Riflessioni a margine dell’intervista resa dal presidente della Corte di Giustizia della Ue in materia di trascrizione dei certificati di nascita dei figli nati fuori dall’Italia ma da genitori omosessuali cittadini dell’Unione.

Il vicedirettore del quotidiano La Stampa, Annalisa Cuzzocrea, in un editoriale del 8 aprile scorso, commentando l’intervista rilasciata allo stesso giornale il giorno prima dal presidente della Corte di Giustizia europea, Koen Lenaerts, ne sintetizza così l’ampio resoconto: “Conformemente al principio del primato del diritto Ue, le sentenze della Corte devono essere rispettate. Pertanto, in tutte le situazioni analoghe al caso Pancharevo, il figlio di una coppia omosessuale deve poter beneficiare pienamente della libera circolazione con i suoi genitori”.

A suo dire, quindi, “non c’è ordine pubblico, né convinzione ideologica, né presunto principio etico, che possa ‒ in Europa ‒ togliere diritti ad un minore” e male ha fatto la maggioranza di governo a rifiutare, con il voto contrario della Commissione Affari Europei del Senato, “la richiesta della Commissione von der Leyen di un certificato di filiazione europeo”, così come peggio fa il governo Meloni a non associarsi agli altri Paesi europei che si sono costituiti dinanzi la Corte di Giustizia Ue contro la legge ungherese sul divieto di diffusione scolastica dell’ideologia gender: “Il governo Meloni, anche questa volta, sta con Viktor Orbàn e con la sua decisione di prendere dall’Europa quel che conviene, senza accettarne lo Stato di diritto. Comprimendolo, violandolo, nel nome di quel concetto di democrazia illiberale che tanto piace a Vladimir Putin (…) Stiamo con Polonia, Romania, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia. Con gli ultimi arrivati. Con chi rifiuta il diritto europeo perché non ne conosce le radici”.

Orbene, a parte che gli ultimi arrivati nella Ue sono i più fieri detrattori della Russia di Putin, avendola fino a qualche decennio fa conosciuta e patita sotto la specie del socialcomunismo sovietico, certamente illiberale ma anche molto poco democratico, il problema forse sta proprio nella conoscenza del diritto europeo, sistematicamente fatto strumento di lotta politica a mezzo di interpretazioni esorbitanti, che, nel caso di specie, riguardano anche sia il testo dell’intervista che della giurisprudenza comunitaria in esso citata.

Provando a portare, quindi, il ragionamento su basi più tecnicamente giuridiche, è agevole dimostrare che Lenaerts, componente della Corte di Giustizia Ue sin dal 2003 e suo presidente dal 2015 a tutt’oggi, belga, professore di Diritto europeo all’Università Cattolica di Lovanio, si è mostrato ben conscio del principio di attribuzione, che devolve alla giurisdizione esclusiva dell’Unione solo alcune materie ed a quella concorrente tra Ue e giurisdizioni dei Paesi membri molte altre, ma non la sovranità nazionale in materia di filiazione e genitorialità.

Egli ha sì richiamato il precedente della sentenza Poncharevo, con la quale la Corte europea ha obbligato la Bulgaria, di cui era cittadina una delle due madri che erano state riconosciute a Gibilterra genitori della bambina nata da Gpa (gestazione per altri), a “rilasciare al minore una carta d’identità o un passaporto e di riconoscere il legame di parentela attestato in Spagna”, ma precisando che ciò era solo “al fine di consentirgli di circolare e soggiornare liberamente nell’Unione con i suoi genitori”, senza che ciò contrasti “con l’identità nazionale e con l’ordine pubblico della Bulgaria”, poiché questa “non ha alcun obbligo di prevedere, nel diritto nazionale, la genitorialità di persone dello stesso sesso. Né è tenuta a riconoscere per diversi fini diversi dall’esercizio dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione, il legame di filiazione tra il minore e le persone menzionate come genitori nel certificato di nascita spagnolo. La Corte si è quindi limitata a garantire l’effettività del diritto dei cittadini dell’Unione alla libera circolazione”, diritto ritenuto prevalente in uno a quello “alla vita familiare” del minore, che sarebbe compromessa dalla impossibilità di vedersi riconoscere i legami familiari anche con il/i genitore/i non biologico/i.  

Dunque, non v’è nessun diritto europeo superiore a quello nazionale in materia di filiazione, con buona pace di chi, tra Commissione e Parlamento europei, vorrebbe invece imporlo ai singoli Stati membri, in spregio all’ordine pubblico interno e, più in generale, dei poteri di controllo di rispetto dei princìpi costituzionali nazionali, se non appunto in termini di impedire la lesione del principio della libera circolazione delle persone in ambito Ue.

Ben potrebbe, quindi, il Paese membro dell’Unione garantire diversa documentazione attestante l’appartenenza del minore, figlio di coppia omogenitoriale, ai suoi ‘genitori’, anche senza consentirne la registrazione anagrafica del certificato di filiazione, al solo scopo, cioè, di permettergli di circolare con loro liberamente negli Stati Ue (e si aggiunga, per inciso, a vedersi riconoscere tale rapporto per tutte le esigenze di sua tutela sociale, come, ad esempio, i presidi sanitari piuttosto che tutti gli altri diritti sociali previsti dalla legislazione nazionale ed europea – quest’ultima in quanto applicabile), ma non per questo necessitante anche il riconoscimento di filiazione.

Tali modesti rilievi evidenziano la natura del tutto ideologica delle querimonie mediatiche sull’argomento, dovendosi invece riconoscere piena legittimità giuridica (che è cosa diversa dalla condivisione di merito) alle circolari – come quella del Prefetto di Milano dello scorso marzo, con cui si è diffidato il sindaco di Milano a non dare seguito alle trascrizione dei certificati di filiazione omogenitoriale rilasciati da altri Paesi –, del resto vistate dal Ministero degli Interni, in ragione dell’esigenza di tutela della normativa che in Italia reprime la pratica del cosiddetto “utero in affitto”, pratica vietata dalla legge e sanzionata penalmente come lesiva della dignità della donna che viene privata del figlio che ha portato in grembo durante la gravidanza a favore dei genitori riconosciuti tali solo per legge.

Del resto, sempre a voler ragionare solo sub specie iuris, è bene ricordare che tale prassi amministrativa non ha fatto altro che dare seguito alla pronuncia delle sezioni unite della Corte di Cassazione numero 38162 del 30 dicembre 2022, a sua volta precettiva del disposto di cui alla giurisprudenza in materia di filiazione della Corte Costituzionale, con la quale il massimo organo di legittimità ha appunto affermato che la Gpa – Gestazione per altri “quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane” per cui “ciò esclude l’automatica trascrizione del provvedimento giudiziario straniero e, a fortiori, dell’originario atto di nascita nel quale sia indicato quale genitore del bambino il genitore d’intenzione, oltre al padre biologico”, così riconoscendo il carattere di norma di ordine pubblico internazionale all’articolo 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, numero 40, che considera fattispecie di reato ogni forma di maternità surrogata, con sanzione rivolta a tutti i soggetti coinvolti, compresi i genitori intenzionali.

La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 230/2020, aveva, infatti, ribadito che:
L’articolo 30 della Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli; la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che possa esplicarsi senza limiti, poiché deve essere bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti, particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma), le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico“.

Ancora una volta, dunque, si agita la presunta estraneità di condotte politico-istituzionali ai princìpi ed alla giurisprudenza europea, in modo del tutto distorto sia rispetto ai princìpi ispiratori dei Trattati quanto alla attribuzione ratione materiae, che alla stessa giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, per mera strumentalizzazione ideologica, invero immeritevole di consenso da parte degli operatori del diritto.

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 05 maggio 2023 alle ore 12:07