L’Officina e il gusto del ragionamento

Si chiama “L’Officina” ed è un bel nome per indicare un think tank, o un centro studi che dir si voglia. Anzi, la definizione più corretta probabilmente è quella di associazione politico-culturale. E sebbene abbia adoperato il trattino, l’intento di questa nuova creatura è quella di eliminare gli steccati che impediscono una contaminazione virtuosa tra il mondo delle idee e l’attitudine al fare e all’agire, ovviamente finalizzato al bene pubblico.

Siamo in Umbria, una regione che da tempo ha dimostrato una certa inclinazione ad esperimenti politici dalla natura variegata. Ultimo della lista l’elezione di Stefano Bandecchi (proprietario dell’Unicusano) a sindaco della città di Terni, grazie al supporto di un partito non proprio in auge a livello nazionale e al sostegno di una particolare forma di civismo (facente rima con populismo). Ma torniamo all’Officina “uno spazio nel quale coltivare la partecipazione, la discussione e l’analisi intellettuale”. Parole di Roberto Morroni, deus ex machina di tale progetto. Morroni attualmente ricopre l'incarico di vicepresidente della Regione Umbria ed è uno storico militante di Forza Italia, dopo essere cresciuto a pane e riformismo nel Psi di Bettino Craxi. E nonostante, per indole, sia sempre stato abituato a proiettare i suoi ragionamenti in una prospettiva futura, è innegabile che l’ispirazione che ha portato alla creazione dell’Officina è partita proprio dalle coordinate concettuali che qualificarono la Prima Repubblica e dal conseguente rifiuto di buttare via il famoso pargolo con l’acqua sporca. Perché, se è vero e lo è, che quel dato momento storico si contraddistinse per non poche tossine ideologiche che andarono ad inquinare la realtà sociale dell’epoca, molti furono gli insegnamenti positivi che i partiti di massa ci lasciarono. In primo luogo, la capacità di selezionare una classe dirigente (politica e non) all’altezza delle sfide che avrebbe dovuto affrontare. E selezione voleva dire gavetta ma anche studio, tant’è che i principali partiti del tempo erano dotati di scuole di formazione di assoluto valore culturale e pedagogico.

In secondo luogo, perché è accaduto che con il dissolversi delle ideologie si è passati direttamente all’epoca del tecnicismo con una totale noncuranza per l’aspetto valoriale. Ed è proprio dai valori che l’Officina vuole ripartire: da riferimenti valoriali ben precisi, grazie ai quali scolpire un’identità politica e culturale chiara e nitida. Un profilo identitario di matrice liberale, garantista, riformatrice, popolare, europeista. Termini, quest’ultimi, simili a degli ideali paletti di una recinzione all’interno della quale, per dirla come Friedrich von Hayek, l’agire politico non è di certo afono, dato che presenta una teoria alle proprie spalle.

L’Officina, rispetto ai suoi modelli d’ispirazione – penso alla Fondazione ReL, o magari a Liberal, finanche alla Fondazione Magna Carta – presenta come oggetto prevalente della propria speculazione tematiche di natura locale e, ciononostante, non disdegna di lanciare dei focus su temi di più ampio respiro.

Tecnicamente, potremmo definirla come un’associazione g-local. Di certo, la parola stessa lo suggerisce: l’Officina vuole riportare il gusto del ragionamento, il piacere di una riflessione che si snodi lungo dei tempi più dilatati rispetto alla frenesia che troppo spesso impregna l’arte dell’amministrare. E invece la complessità del reale deve essere esaminata lentamente, verrebbe da dire pezzo per pezzo, come gli ingranaggi di un motore rigenerato, giustappunto, in un’officina meccanica. Inoltre, è proprio grazie a realtà come questa che si può tentare di gettare le basi per un’operazione che possa, se non altro, tendere al fusionismo politico, in cui cioè le varie sensibilità dell’area cosiddetta moderata possano convergere mediante un effetto sinergico verso una sintesi alta. E il tutto nella piena consapevolezza che, come sosteneva Vasco Pratolini, “le idee fanno paura, ma solo a chi non ne ha”.

Aggiornato il 15 giugno 2023 alle ore 13:27