Da Tolkien ai “Campi Hobbit”

Come ogni distillato che si rispetti anche quello di John Ronald Reuel Tolkien, un concentrato di socialismo e paganesimo, è profumato ed inebriante. Crea, infatti, emozioni facendo appello alla meraviglia e allo stupore che stimolano la mente umana a fantasticare. Ma queste, brevi, immediate e intense emozioni hanno bisogno di un ulteriore passaggio per diventare sentimenti, che sono per loro natura molto più duraturi e consapevoli e poi trasformarsi in azioni concrete. Approfondendo la saga del Signore degli anelli questo non può avvenire, perché dal mondo favolistico del racconto, fatto di dame bianche, cavalieri, nani, elfi, orchi, druidi, forze oscure, foreste viventi, scene di battaglie e incantesimi, si ritorna fortunatamente alla realtà quotidiana, con il portato di concretezza che ogni persona assennata riacquista appena iniziano a scorrere i titoli di coda del film.

È un bel modo di trascorrere, con i bambini al seguito, una “magnifica” serata, come quando insieme ai nostri genitori andavamo a vedere Superman o Zorro e poi correvamo a comprare mantelli e spade con cui a Carnevale saremmo andati a scuola senza correre il rischio di essere condotti alla neurodeliri. A parte ogni connotazione folkloristica, però qual è il messaggio di Tolkien, tanto osannato da una certa destra? Se essenzializziamo, salta subito all’occhio, che il suo è un distillato di socialismo, di paganesimo e di pauperismo paleocristiano. Il personaggio chiave del racconto è l’antieroe Frodo Baggins, un hobbit (un mezzo uomo), piccolo, timido, insicuro, costretto da uno stregone a portare l’anello del potere alla distruzione.

Tutta la storia è un atto di sfiducia nell’umanità, ritenuta incapace di controllare il potere dell’anello, e per questo un “comitato centrale” guidato dal “Rasputin” di turno, Gandalf, ritenuto persino dai re di una sapienza “superiore”, che impone, in nome del bene comune, la costituzione di una compagnia d’armi per distruggere il gioiello. Basterebbe questo per dire che l’immagine richiama l’idea totalitaria che solo una ristretta cerchia ha il diritto di scatenare una serie di conseguenze drammatiche. Ne emerge un quadro in cui si manifesta il disprezzo per la ricchezza e il sistema occidentale fondato sulla libertà, la critica e il capitale. Questo sentimento si materializza nel momento in cui elfi e uomini si alleano per costringere il nano Thorin Scudodiquercia, pretendente al trono del Regno sotto la Montagna (uno dei tanti miti celtici a cui l’autore fa riferimento) a cedere l’oro che lo ha portato alla follia. Alla fine, Thorin rinsavirà solo dopo aver rinunciato al tesoro che tra mille peripezie aveva conquistato. Nel sacrificio del benessere si colgono così gli elementi essenziali del pauperismo paleocristiano.

Certamente Tolkien rimane un grande autore, capace di riportare in vita con la sua creatività gli antichissimi miti celtici a sfondo druidico che nei secoli passati impressionavano i popoli preromani, poi ripresi e riformulati dall’epica cavalleresca, arrivando fino a noi rilanciati dalla finzione cinematografica. Non va dimenticato, però, che una certa esaltazione della mitologia celtico-pagana e norrena fece anche da base alle terribili e sanguinarie ideologie nella Germania degli anni Trenta. Detto questo però il rischio che si coglie nella passione per l’epopea tolkeniana di una certa destra che si autodefinisce “sociale” è quello di sovrapporre l’elemento fantasy alla realtà, per creare un mito collettivo e unificante.

Nulla di nuovo sotto il sole, perché l’operazione di riproposizione di un’epica nuova e al contempo antica, fu compiuta nell’ambito del mondo giovanile degli anni Settanta del Movimento sociale italiano, il quale in qualche maniera doveva scrollarsi di dosso il marchio del fascismo, che aveva attinto alla mitologia romana a piene mani e non poteva essere più utilizzata come base comune per i ragazzi del Fronte della gioventù e gli universitari del Fuan. Tentativo intelligente ma di 46 anni fa. In questo clima nacquero i “Campi Hobbit” nel 1977, pensati da Marco Tarchi, Umberto Croppi, Giampiero Rubei e Generoso Simeone per dare voce alle istanze ribellistiche, creative e genericamente rivoluzionarie presenti nell’ambiente di cui era leader Pino Rauti, e della Nuova destra. Proprio su La voce della fogna, il giornale satirico fondato da Marco Tarchi, nell’aprile del 1977 ne fu dato l’annuncio.

E così il militante della Nuova destra viene descritto da uno degli animatori culturali del mondo giovanile missino Stenio Solinas sul quotidiano Roma, il 21 giugno 1977 con queste parole: “Il ritratto di una gioventù decisamente rivoluzionaria, che si trova a disagio con il binomio ordine-legalità; che ce l’ha più con il sistema che con il comunismo; che sogna un repulisti generale, ma che sa, alla fin fine, che tutte le rivoluzioni vengono tradite. È gente che per maestri si è scelta Corneliu Zelea Codreanu ed Julius Evola, gli antichi codici d’onore ed il gusto dell’intransigenza”. Il clima è quello di una rivolta contro l’establishment in generale e di quello del Msi in particolare, ritenuto troppo ingessato. E così, il richiamo alla mitologia risorgimentale venne abbandonato e Giovan Battista Perasso detto “Balilla” venne sostituito da Frodo Baggins.

Questo proposito, allora comprensibile, portò alla sconfessione dei campi da parte del ceto dirigente missino. Infatti, sul Candido di Giorgio Pisanò, Nicola Cospito, nell’agosto 1978, riferendosi al secondo “Campo Hobbit”, scrisse: “Siamo sinceri. Chiunque abbia tra di noi un minimo di sensibilità politica e operi da qualche tempo nel nostro mondo giovanile, ha trovato a Campo Hobbit esattamente quel che si aspettava, e cioè un ambiente vanamente rumoroso, superficiale, ignorante e, quel che è peggio, presuntuoso”. Nel contempo è interessante notare che nel rapporto n.9/2 dell’8 ottobre 1982 della Commissione parlamentare “Moro”, si afferma: “Il nome scelto per tale raduno, (Campi Hobbit) è significativo già di per sé… La divisione manichea tra il bene e il male è assoluta e irriducibile. Il tipo di ideali a cui si rifanno gli attuali autonomi neri sono per l’appunto questi: una purezza di per sé rivoluzionaria, un disprezzo assoluto per chiunque non appartenga alla stessa schiera e non ne condivida gli ideali. Le simpatie per le Br sono dovute al fatto che anche loro sono contro il sistema. Si tratta di una realtà senza dialettica, che può essere solo affermata o negata. L’assenza di un’ideologia precisa, il richiamo a una simbologia autoritaria e al mito del superuomo, la ferrea e manichea separazione tra il bene e il male, forniscono materia per una copertura ideologica che anche uno psicopatico può attribuirsi”.

Sicuramente Tolkien va apprezzato per quello che è: un geniale scrittore di fantasy. Ma elevare oggi il suo mondo magico favolistico a elemento di coesione culturale per farne una politica è un’iniziativa passatista oltre che risibile, basterebbe riprendere in mano il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes per capire che l’epoca dei cavalieri e delle dame, ammesso che sia mai esistita come rappresentata nei poemi epici della Chanson de geste o nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, è tramontata per sempre e da tempo. Allora, il rischio diventa quello di perdere il senno, come Orlando o come il povero cavaliere dalla “trista figura” in cerca di una inesistente Dulcinea del Toboso, sotto l’effetto del distillato di socialismo a sfondo mistico pagano, in compagnia di Sancho Panza, metafora del popolo, che tra il divertito e il compassionevole segue il suo signore per vedere come va a finire. Meglio, allora, un sano ritorno al reale, con tutte le contraddizioni e le criticità che ogni fenomeno storico e umano porta con sé, senza farsi abbacinare da illusioni, allucinazioni o miti incapacitanti.

Aggiornato il 23 novembre 2023 alle ore 15:01