Genova per noi

“Quella espressione un po’ così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova… E ogni volta ci chiediamo / Se quel posto dove andiam o/ Non c'inghiotte, e non torniamo più”. Le parole in musica di Paolo Conte (che non è il Premier ma un raffinato cantautore) potrebbero essere la perfetta rappresentazione del vuoto che ha scavato nelle nostre coscienze quel ponte che è crollato d’improvviso sopra la nostra distratta quotidianità ferragostana. E ha fatto vittime. Vere, ostensibili, quelle dei morti che ci insegnano a piangere. Ma anche nascoste, che non appaiono, non si mostrano ma fanno male, quelle delle nostre mediocri certezze di uomini comuni, consumati da una routine che sta stretta ma non si rinnega. Storie aggrappate al disperante ottimismo consolatorio che racconta un Paese reale che è avanti a molti altri, e che se guardiamo indietro non è che poi si stia tanto male. È il nostro mondo piccolo che si tiene con gli spilli nell’illusione che non crolli, che sia eternamente uguale a se stesso, anche quando minacciamo facili sfracelli o gattopardesche rivoluzioni. Ma quando poi il cielo, travestito da ponte, ci casca sulla testa non sappiamo più chi siamo.

L’universale passepartout dell’io-speriamo-che-me-la-cavo non ci salva, non questa volta. Come potrebbe? Si va giù da un ponte in infradito e la tavola del surf rizzata sul tettuccio dell’auto, si resta schiantati sotto il ponte con in tasca un contratto da stagionale all’isola ecologica. Cileni, francesi, albanesi, italiani del Nord e del Sud, nessuno ti chiede da dove vieni quando precipiti. Si dirà: è il destino cinico e baro a dare le carte. Mai sospettiamo che possa essere il nostro turno al tavolo della roulette russa della vita e della morte. Non lo pensavano di certo quei 43 che alle ore 11,36 della mattina del 14 agosto sul ponte “Morandi”, il Brooklyn  de' noantri, che allaccia, come una bretella che tiene su un paio di brache, il levante al ponente genovese, hanno pescato dal mazzo tarocco lo scheletro che impugna la falce. Sono volati via come angeli a reclutamento coatto. Di loro, non avrebbero voluto. Non volevano mettere le ali ma solo continuare a essere umani. Come le altre anime sbalzate fuori dai corpi schiacciati dai pezzi di cemento venuti giù.

Se c’è un Dio da qualche parte si vede che quel giorno ha chiuso bottega, perché non c’è niente di giusto e di sensato nel finire così, a vent’anni e con una chitarra nel portabagagli o a nove, come la piccola Crystal diretta in vacanza con i genitori all’Isola d’Elba, con paletta e secchiello a farle da fidati compagni di viaggio, l’ultimo, arrivato troppo presto, ancor prima di cominciare. “Eppur parenti siamo un po' / Di quella gente che c'è lì” che è rimasta sotto le macerie a Genova e ha preso commiato dalla vita in una cassa di legno, omaggiata da tutti: amici e parenti, autorità e popolino, laici e beghine, colpevoli e innocenti, guardie e ladri, vittime e carnefici. Come a dire: siamo tutti eguali davanti alla morte… degli altri.

Sarebbe potuta andare diversamente. Quel ponte non doveva collassare. Era stanco, e lo aveva fatto capire. Ma nessuno, tra chi avrebbe dovuto, gli ha dato retta. Si è preferito far finta di niente e lui l’ha fatta pagare. Se n’è andato per il troppo stress a 51 anni, portandosi dietro un bel po’ di gente che con la sua salute non c’entrava niente. Ora che la frittata è fatta si cercano i responsabili. Ma non sarebbe stato meglio farlo prima di rompere le uova? Sarebbe stato bene dire ai padroni delle autostrade italiane: ehi, amici, prima di spartirvi il malloppo fate qualcosa per tenere in salute chi vi dà da vivere da principi e regine. Lo sa anche il contadino che se vuole essere ricco deve badare a ingrassare il cavallo. Non s’è mai visto un ronzino che fa la fortuna del suo padrone. Sarebbe bastato semplicemente essere meno famelici e Crystal e Samuele quel castello di sabbia sul bagnasciuga l’avrebbero tirato su. E sarebbe stato bellissimo. E Marta e Biagio la torta nuziale tanto attesa l’avrebbero finalmente tagliata, magari tra gli sfottò degli invitati che una barzelletta sporca sul medico e l’infermiera non si nega a nessuno. Figurarsi ora che medico (Alberto Fanfani) e infermeria (Marta Danisi) c’erano davvero e facevano sul serio. Invece, un requiem gli ha fatto da marcia nuziale.

Che c’è di giusto in tutto questo? Niente, proprio niente. Certe volte la vita fa talmente schifo che sa farsi odiare per quanto è traditrice. Vatti a fidare di lei, in un’assolata giornata d’agosto, sospesi in aria su un ponte che dovrebbe potare lontano. Invece cade e trascina giù. E ti catapulta, con un biglietto di sola andata che nessun casellante dovrà obliterare, in un altrove che non è quello progettato, desiderato, voluto, richiesto. Con quella faccia un po'così / Quell'espressione un po'così / Che abbiamo noi / Mentre guardiamo Genova.
 

Aggiornato il 27 agosto 2018 alle ore 11:36