Verdiglione e la grave colpa di ritenersi innocente

Quando si parla della “feroce burocrazia della giustizia all’italiana” non si esprime solamente un luogo comune banalissimo e risaputo. Spesso semplicemente ci si scontra con la realtà applicativa delle leggi da parte dei singoli magistrati.

Nella fattispecie, la realtà che riguarda Armando Verdiglione  e il terzo rigetto subito ad una istanza di differimento pena per gravi motivi di salute – e la magistratura di sorveglianza a Milano. Anche il protestarsi innocente sebbene la pena sia passata in giudicato viene visto male. Con occhio sospettoso. Tanto da venire menzionato nella motivazione di rigetto dell’istanza suddetta.

Ecco, leggendo la breve nota con cui il magistrato di sorveglianza di Milano si è assunto la responsabilità – nonostante i ripetuti appelli di parte del mondo politico e culturale italiano, a partire dal Partito radicale e da Rita Bernardini – di rigettare per la terza volta un’istanza di differimento pena per un residuo di cinque anni e otto mesi (per vecchie e discutibili condanne che vanno dalla truffa all’evasione fiscale passando per la circonvenzione d’incapace) divenuto definitivo tre settimane orsono, si capisce cosa spesso muova l’indicibile che sta dietro le decisioni degli uomini che amministrano la giustizia: la semplice simpatia o antipatia che promana dal personaggio la cui sorte devono giudicare.

Scrivere in calce al provvedimento in questione – peraltro motivato con appigli burocratici che rimandano a esperti sanitari del penitenziario che non ravvisano ancora l’incompatibilità con il regime carcerario per il filosofo detenuto, al contrario di quanto invece sostiene il perito di parte che lo ha visitato a Opera che Verdiglione “ha un atteggiamento polemico ed è contrariato per la carcerazione che definisce ingiusta e conseguente ad errori giudiziari”, significa solo trasformare in una colpa il sacrosanto diritto di ritenersi e dichiararsi innocente anche se ormai il verdetto è passato in giudicato.

In Italia tante persone hanno dovuto rassegnarsi a un giudicato molto probabilmente ingiusto quando non assurdo: nel campo del terrorismo basta citare i casi di Adriano Sofri da una parte e di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti dall’altra. In tempi più vicini si può ricordare la vicenda processuale di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro nel delitto Marta Russo. Ma gli esempi potrebbero essere centinaia se non migliaia in un Paese che per troppo giustizialismo e corporativismo da parte della magistratura è diventato una vera fabbrica di errori giudiziari. Grandi e piccoli. E non tutti scoperti o rimediati o con il “lieto fine”.

Bene, a Verdiglione viene precluso anche il “diritto al mugugno” che anzi viene citato (“in cauda venenum”) in un provvedimento che gli nega per la terza volta da parte del magistrato di sorveglianza la facoltà di differimento, pena alla tenera età di 74 anni e in un quadro clinico che per cause come la mancata nutrizione potrebbe precipitare da un momento all’altro. Ci vuole coraggio per assumersi questo tipo di responsabilità.

 

Aggiornato il 01 ottobre 2018 alle ore 16:49