Il mito della società vendicativa

Vendetta. Una parola che si esorcizza. Quasi non si nomina. Sebbene il concetto espresso venga praticato quotidianamente. Ormai quasi da tutti. Vendicarsi è bello, appagante, talvolta affascinante. Specie quando la vendetta è sociale, lo stato che si vendica dell’individuo deviante, del delinquente. E che lo annienta. È quello che giustifica la pena di morte. E in Italia “la morte per pena”. L’ergastolo ostativo, il 41 bis di default per chiunque venga anche solo accusato di essere mafioso. La vendetta è come un adulterio che la nostra mente e il nostro cuore compiono per tradire la nostra anima, che invece tenderebbe a essere pura e a non marcire nel risentimento. Ma vuoi mettere com’è bello indicare il reprobo? Il rejetto? Basta solo nascondersi dietro gli altri. La massa. Anzi: “il popolo”. Lo stesso della “manovra del popolo”. Come tutti gli adulteri, come tutti i tradimenti, la vendetta va praticata di nascosto o nascondendosi dietro qualcosa di molto imponente.

“Il sentimento popolare”. L’importante è non farsi scoprire, nemmeno nominarla la parola. Si fa ma non si dice. Come quasi tutto nel nostro Paese, e ormai anche in Europa. Continuiamo allora a vendicarci. A condurre questa doppia vita, tradendo l’anima dell’umanità nella pratica ed esaltandola nella teoria. Facciamo finta di essere cristiani, razionali, per bene. E continuiamo a vendicarci con sadismo di chi è più debole di noi. Degli ultimi. Dei nemici sociali. È comunque una grande consolazione in tempi di crisi economica pressoché senza soluzione di continuità.

Aggiornato il 29 ottobre 2018 alle ore 13:37