I primi crimini da esclusione nell’Italia ostello d’emarginazione

Le garanzie per chi lavora sono tornate ai livelli di fine Ottocento, e con buona pace di certi sociologi che invitano a “lavorare gratis se si è giovani occidentali”, soprattutto ad “accettare di buon grado l’esclusione sociale” (qualche migrante di seconda generazione ha scartato l’esclusione ed ha scelto la deriva terroristica).

I recenti casi di violenze su donne, accoltellamenti e sequestri di pullman e persone ci narrano una deriva schizofrenica che, soltanto fino a ieri, era sconosciuta all’Italia. Ma nella vicina Francia questi fenomeni li avevano già subiti negli anni ’60 e ’70, dove le seconde generazioni di “pied-noirs” d’origine nordafricana, dal cognome algerino, stentavano ad inserirsi in una Parigi dove il lavoro buono veniva dato solo ai francesi purosangue. Gli altri s’arrangiavano perché Oltralpe il lavoro non era mai scarseggiato. Il problema “banlieue” è esploso con tutta la sua tragedia negli anni ’90, quando anche in Francia il mercato del lavoro ha iniziato a sputare fuori chi s’accontentava di pulire portoni, lavare strade o lavorare in officine e cantieri. Oggi questo stesso problema s’è presentato in Italia, dove un mercato del lavoro (con sempre meno garanzie) deve fare anche i conti con la guerra tra poveri: la gente di strada s’avventa sulle opportunità di lavoro come i baraccati in fila ai cantieri in “Ladri di biciclette” (la pellicola di Vittorio De Sica narrava appunto il problema del lavoro nel dopoguerra).

Oggi è una dato di fatto che, dai venti a sessant’anni si fatica ad integrarsi nel mercato del lavoro, perché la politica ha partorito norme che favoriscono lo sfruttamento dei non garantiti. Anche l’ultima statistica Istat ha fatto dietrofront, ammettendo che il tasso di disoccupazione continua a crescere in Italia, e che chi perde un lavoro dopo i 35 anni è già non più reinseribile. Cito sempre come esempio Lara Maestripieri (ricercatrice di “Spazio Lavoro”) e Roberto Rizza (sociologo dell’Università di Bologna) che nel volume “Giovani al lavoro: i numeri della crisi” parlano di penalizzazione che si concretizza principalmente nel livello di disoccupazione ed inattività più alto d’Europa: soprattutto che la maggiore competenza non è più a vantaggio dei percorsi professionali.

A Torino, dove pochi giorni fa un migrante ha ucciso un italiano felice d’aver trovato un lavoro, la lotta per portare il pane a casa è tutta tra poveri, esclusi. Emerge lo spaccato d’una società immobile, ben attenta a non far partire l’ascensore sociale. Ed è la stessa Torino dell’ingegnere nucleare che 20 anni fa lavorava in un Mc Donald: oggi la rete ci ha rivelato che s’accontenta di fare il pony express e, di tanto in tanto, d’arrotondare con lezioni private di matematica. In una società così lacerata, l’odio si sposta tutto nella competizione tra poveri. Perché il mercato del lavoro è inasprito da disuguaglianze intergenerazionali ed esclusione sociale.

Tra un decennio, dicono gli studiosi, l’80 per cento della popolazione potrebbe gravitare nell’esclusione sociale, soprattutto che gli eserciti servirebbero solo per difendere il potere dai derelitti, dagli indigenti: una verità molto più concreta dello stesso riscaldamento globale. Fino ad un decennio fa si raccontava ai giovani che l’ingresso nel mondo lavoro (e nell’era post-industriale) andava inquadrato nell’ottica di una preminenza del lavoro intellettuale, come destino ineluttabile dell’economia moderna. Oggi nessun politico sembra abbia sufficienti parole (o coraggio) per ammettere che il 60 per cento della popolazione non è più inseribile lavorativamente. La ricetta si conferma “meno laureati più lavoro per tutti”: il modello futuro potrebbe essere la periferia indiana, dove tanti poveri sono disposti a lavorare per poco o nulla. In questa direzione vanno tutte le leggi nazionali che recepiscono la “sharing economy” (lavoro in affitto), tanto caldeggiata dall’Unione europea: in pratica vogliono trasformare tutta la forza lavoro in milioni di sciuscià, che come in una pellicola in bianco e nero sortiscono dai tuguri pregando di lavoricchiare un po’ qua ed un po’ là. In questa situazione difficilmente si potrà consigliare ai migranti (come ad italiani in indigenza) d’accettare un percorso d’esclusione sociale, di non odiare chi ha una lavoro e d’affrontare in maniera remissiva il rapporto con una civiltà ormai satura, non più osmoticamente pronta all’integrazione: perché l’integrazione è oggi soprattutto economica.

La professoressa Calabrò (Censis) dice che “l’immigrazione è un fenomeno molto complesso che coinvolge diversi aspetti della società (il lavoro, l’istruzione, la salute, solo per citarne alcuni) e che richiede a quanti sono chiamati a gestirlo conoscenze e competenze specifiche, per la realizzazione di una completa e positiva inclusione dei migranti nel nostro Paese”. Il problema è che oggi troppi giovani vedono nell’accoglienza (e la rete ce lo dimostra) l’unico lavoro del futuro, l’unica professione praticabile in Italia. L’idea dell’Italia trasformata in enorme arca per Africa e Medio Oriente va rivista, pena condannare l’Italia ad una sorta di nuovo stato conflittuale (sul modello mediorientale palestinese) in cui quotidianamente la gente si svegli per odiarsi, accoltellarsi, inviluppandosi in uno scontro senza ritorno. Chi ha promosso l’integrazione oggi si deve prendere tutte le responsabilità, perché la vita umana non è un gioco e non si può di punto in bianco dire alla gente “accettate gandhianamente l’esclusione sociale”.

Pare che, nemmeno nelle metropoli indiane gli emarginati accettino più di buon grado d’essere fuori casta, d’essere dei “paria”. L’uomo occidentale è fatto anche di odio ed invidia, e davvero rari potrebbero essere gli esempi di chi risponda col sorriso all’emarginazione.

Aggiornato il 05 aprile 2019 alle ore 12:37