Greta nun ce lassà

Va bene, adesso che Greta la sedicenne imbronciatella svedese se ne è tornata in Svezia per lasciare la scuola e preparare un tour intorno al mondo (ma chi paga?) con tutto il codazzo di articoli inneggianti, esaltanti, deprimenti, caustici, al vetriolo o anche al cianuro, che hanno dato il là agli inventori delle mille divertenti vignette e caricature che hanno riempito gli schermi dei nostri telefonini nelle ultime settimane e che già sono state sostituite dalle altre sui bollori dell’estate, adesso che incrociando le dita anche le giornate piovose hanno lasciato spazio a questo caldo asfissiante che preannuncia un’estate piena di zanzare nostrane e loro ospiti tra cui la nuovamente malvenuta tra noi chikungunya; ebbene, adesso possiamo riprendere a ragionare di ambiente, senza dividerci tra guelfi e ghibellini, livornesi e pisani, Gigini e Mattei.

La lotta al cambiamento climatico è in effetti una priorità per la nostra Europa postelettorale dove il verde è cresciuto ma non dal punto di vista botanico. Per poter contenere al di sotto dei 2 gradi centigradi l’incremento medio della temperatura del pianeta rispetto ai livelli preindustriali e per giungere entro il 2050 alla cosiddetta “neutralità ambientale” delle attività umane sul nostro pianeta occorrerà, dicono gli esperti, realizzare la sostituzione di tutti i combustibili fossili con le fonti rinnovabili. Il raggiungimento di questo obiettivo necessiterà di un importante piano di riconversione energetica e industriale del quale non è facile immaginare la ricaduta globale sulle nostre abitudini di vita, sugli aspetti sociali e sui livelli occupazionali.

Lo scorso maggio, in un convegno a Roma dal titolo “Cambiamenti climatici e giusta transizione”, l’argomento è stato ampiamente affrontato. Ci si è interrogati su cosa accadrà nel 2025, anno entro il quale è prevista la chiusura delle centrali a carbone e su cosa accadrà ai lavoratori che saranno espulsi dal ciclo produttivo in assenza di piani industriali concreti e realizzabili. Il rischio è che il costo economico ed umano di questi cambiamenti possa ricadere sulla testa delle fasce economicamente meno stabili della popolazione accentuando il divario già esistente in termini di benessere, aumentando al contempo le sacche di vera povertà ed emarginazione sociale.

Nell’ambito del confronto avvenuto all’interno delle associazioni più rappresentative dei lavoratori sono stati evidenziati essenzialmente due rischi. Qualora non si dovesse contrastare il cambiamento climatico, la catastrofe ambientale comporterebbe una crisi globale che si andrebbe a scaricare sul lavoro e sulle fasce più deboli della popolazione. Qualora invece la lotta al cambiamento climatico non fosse accompagnata da una corretta transizione il prezzo verrebbe pagato quasi esclusivamente dalle lavoratrici e dai lavoratori di tutto il mondo che potrebbero divenire rapidamente ex lavoratori ed ex lavoratrici.

Nel 2015, l’allora Governo italiano convocò quelli che, forse pomposamente, furono definiti gli “Stati generali sui cambiamenti climatici e la difesa del territorio”. Ne emersero alcune riflessioni e proposte tra le quali la necessità di rendere la popolazione partecipe della problematica ambientale, per troppo tempo confinata tra gli addetti ai lavori, la opportunità di istituire una cabina di regia governativa – e quella della cabina di regia è sempre un bel dire in un Paese come il nostro dove la cabina, quella elettorale è quasi sempre in perenne attività – la necessità di associare il diritto alla salute ed sicurezza nei posti di lavoro con il diritto alla tutela ambientale e sanitaria. Altre indicazioni emerse furono quelle di predisporre un piano nazionale per le competenze green per creare nuova occupazione, di dotarsi di politiche energetiche fondate sulla priorità dell’efficienza, di porre in essere strumenti fiscali finalizzati alla promozione dello sviluppo sostenibile e, last but not least, di garantire le risorse ai Paesi poveri per la lotta alla desertificazione, alla deforestazione, alle alluvioni, alla fame, alla povertà e all’analfabetismo, vincolandoli tuttavia al rispetto dei diritti umani e del lavoro. Pertanto occorre rimboccarsi sin da subito le maniche senza perdere ulteriore tempo nelle giostrine della italica politica.

Obiettivi chiave a livello dell’Ue per il 2030 sono la riduzione di almeno il 40 per cento delle emissioni di gas a effetto serra (a partire dai livelli del 1990), l’incremento al 32 per cento delle energie rinnovabili e l’incremento al 32,5 per cento dell’efficienza energetica. Un ruolo chiave lo giocherà il settore dei trasporti, che è fondato in gran parte sui combustibili fossili. Per ottenere riduzioni delle emissioni profonde sarà dunque necessario un approccio sistemico integrato al sistema dei trasporti proprio a motivo del predominante utilizzo dei combustibili fossili.

Bisognerà quindi aumentare l’efficienza complessiva dei veicoli, favorire il passaggio a carburanti alternativi e ripensare il sistema di trasporto per ottenere quei miglioramenti della qualità di vita che derivano dalla riduzione del rumore e dall’aria più pulita. Meno trasporto privato e più trasporto pubblico significa davvero aria più pulita. Meno automobili inquinanti e più trasporto pubblico, esattamente come accade a Roma da molti mesi grazie ad una efficientissima e rapida manutenzione delle nostre numerose linee della metropolitana.

Grazie Greta, ci hai convinto. Verremo a vivere a Stoccolma, Vi kommer att bo i Stockolm.

@vanessaseffer

Aggiornato il 11 giugno 2019 alle ore 11:41