Raffaele Cantone: “Burocrazia e criminalità i nemici della ripresa”

Da capo dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha elaborato l’istituto della “vigilanza collaborativa”, considerato una best practice da parte dell’Ocse. Può essere considerato uno strumento efficace in un sistema bloccato e inefficiente come quello italiano, che si presta facilmente a episodi di corruzione? Com’è stata la sua sperimentazione?

L’Istituto è stato oggetto di una sperimentazione che ha avuto avvio con l’esperienza dell’Expo. La norma su Expo prevista nel Decreto Madia del 2014 non diceva con chiarezza come andavano effettuati i controlli. Così in quel periodo, confrontandoci con la società Expo che si occupava degli appalti, individuammo un criterio che non fosse né preventivo né successivo, ma che io definisco “concomitante”. Non ci venivano mandati gli atti definitivi fatti da Expo, ma le relative bozze, sulle quali noi fornivamo una serie di suggerimenti. Ecco perché “vigilanza collaborativa”: non era questione di dire “bravo” o “cattivo” a chi fa gli atti secondo il criterio tipico dei controlli, ma di fornire suggerimenti operativi alla stazione appaltante per trovare la soluzione corretta ed efficace. Questo sistema, che era il frutto di una interlocuzione con chi opera sul campo, ha dimostrato di essere particolarmente veloce e particolarmente efficace evitando una serie di problemi di percorso. Nella vicenda Expo, ha avuto il grande pregio di far terminare i lavori in tempi velocissimi. Ecco che il sistema è valso un riconoscimento come “best practice”. Qual è il limite del sistema? Per sua natura può essere replicato in un numero limitato di casi. Esso può essere replicato con successo quando l’interlocuzione avviene con un’unica stazione appaltante e si crea un rapporto fra chi opera e chi controlla. L’Unità operativa speciale, istituita presso l’Anac, aveva ormai creato un modo di confrontarsi con i tecnici della stazione della società Expo che consentiva davvero di intendersi velocemente. Si riuscivano a svolgere questi “controlli” in tempi velocissimi. Quindi io credo che quello sia uno strumento utile ma che non può essere replicato se non in situazioni specifiche, con riferimento ad opere nelle quali c’è una stazione appaltante che deve fare tante attività e i soggetti che si interfacciano con la stessa riescano a creare, al di là della sinergia formale, una sinergia sostanziale. Perciò il sistema ha avuto un minore impatto per gli appalti del terremoto, in cui erano tante le stazioni appaltanti con cui interloquire.

Il nostro sistema economico e produttivo è bloccato in ogni settore dalla burocrazia, che determina inefficienza e perdita di competitività. Quali sarebbero le misure più urgenti da intraprendere per liberare le energie delle imprese?

Io parto da un assunto. La parola “burocrazia” non può essere di per sé considerata in senso negativo. Esiste una “necessità necessaria” della burocrazia, ovvero la funzione di intermediazione fra soggetto pubblico e soggetto privato. Il soggetto pubblico che deve svolgere un’attività nei confronti del soggetto privato ha bisogno dell’intermediazione di un tecnico, che è il burocrate. Questo è un dato di cui non si può fare a meno: nessuno stato del mondo ne fa a meno. Dovendo bandire un appalto, non posso fare a meno del burocrate. Chi deciderebbe, fra dieci persone, il vincitore di una gara? Oppure, chi deciderebbe se io posso avere il beneficio di un’autorizzazione? Quindi la burocrazia svolge una funzione ineliminabile fra pubblico e privato. Si capisce che dire “eliminiamo la burocrazia” esprime una petizione di principio impossibile. L’obiettivo, invece, deve essere diverso e cioè quello di rendere la burocrazia efficiente e non uno strumento di blocco, ma uno strumento di miglioramento dell’attività dell’ente pubblico ma anche del privato cittadino che si interfaccia con l’amministrazione. Bisogna anzitutto creare le condizioni affinché, per esempio, chi vinca la gara sia il migliore. Consentendo al privato che chiede un’autorizzazione di far sapere in tempi rapidi quali documenti sono necessari ed in quanto tempo si evaderà la sua richiesta. Il punto è trovare meccanismi che consentano alla burocrazia di essere migliore. Qui voglio essere chiaro. Le soluzioni che vengono proposte sono spesso solo slogan che non hanno alcuna possibilità di impatto reale. Siamo tutti d’accordo di voler “eliminare gli intralci burocratici”, ma l’affermazione in sé non significa nulla. L’idea di una semplificazione delle procedure mi trova certamente d’accordo, ma non con interventi di carattere emergenziale, ma di sistema. Siano indicati con precisione i controlli ed essi siano espletati senza accavallarsi. Quello di cui soprattutto si ha necessità è una legislazione chiara e non alluvionale, cioè che non cambi ogni due mesi come avviene da noi. Le regole chiare consentono alla burocrazia di dare risposte e di non nascondersi dietro alibi. Non basta poi fare affermazioni di principio “semplifichiamo la burocrazia”, se non consentiamo anche alla burocrazia di essere all’altezza della sfida. Una burocrazia con pochissime competenze in tema di digitalizzazione, anche per questioni di età non è all’altezza di raccogliere le sfide della modernità. Parlo per me, ho una cultura digitale insufficiente e vedo la differenza con le nuove generazioni abituate ad utilizzare gli strumenti informatici. C’è, quindi, un problema di regole, ma c’è anche un problema di burocrati. Di qualità e formazione della burocrazia. Ovviamente, quello di cui sto parlando non può essere fatto da un giorno all’altro. E io diffido di chi, a problemi complessi, dà soluzioni semplificate. Chi lo fa, non offre soluzioni. Questo è un tema complicato che si pose persino Benito Mussolini nel periodo fascista. Oggi alcuni storici dicono che Mussolini rinunciò alla riforma della burocrazia sapendo quanto fosse complessa. Dal ‘46 ad oggi si sente ripetere come un mantra che bisogna riformare la burocrazia! Chi oggi sbandiera soluzioni semplicistiche, prende in giro gli interlocutori. Il problema è molto complesso ed ha bisogno di più interventi e soprattutto di investimenti e di chiarezza e stabilità normativa. E poi il funzionario pubblico va seguito anche durante la sua carriera; non basta assumere bravi professionisti; lo stato si deve far carico della loro formazione continua e del loro aggiornamento.

Lei ha spesso definito la Consip come “uno strumento fondamentale della politica economica del sistema paese”. Nell’emergenza, ha dimostrato di non essere all’altezza. Domenico Arcuri, commissario straordinario all’emergenza di Palazzo Chigi, in una riunione con le regioni, ha espressamente dichiarato come “il 50 per cento dei ventilatori arriverà forse alla fine dell’emergenza. Diamo a Consip la responsabilità di non saper pianificare questi arrivi”. Come mai la Consip non ha retto l’urto dell’emergenza? Come renderla più efficiente?

Premetto che io, prima di diventare presidente dell’Anac, sapevo poco su cosa fosse la Consip. Poi, durante la mia esperienza all’Anac, mi ci sono interfacciato moltissime volte, e ne ho visto i pregi e i difetti. Ho verificato sul campo che la Consip è diventata un modello internazionale. Mi è capitato molto spesso di andare in altri Stati e avere scambi con chi si occupava di appalti. Mi si presentavano dicendo: “Noi siamo l’omologo della Consip italiana”. Si tratta di un brand ormai diventato noto a livello internazionale. Qual è la sua funzione? Dobbiamo partire da qui. Essa è uno strumento che dovrebbe garantire la centralizzazione degli acquisti e permettere alle singole amministrazioni efficienza e risparmi. Le faccio un esempio. Tra gli appalti più difficili da fare, ci sono quelli di pulizia e di facility management, cioè di tutto il sistema di manutenzione degli uffici. Per fare questi appalti, un’amministrazione ci metterebbe 3 o 4 anni per fare la gara. Quando la Consip stipula un “contratto quadro”, la singola amministrazione può servirsi dell’appalto già fatto. Anziché tre anni, all’amministrazione bastano 20 giorni e la centralizzazione dovrebbe anche garantire il risparmio economico. Pensiamo, inoltre, anche al mercato elettronico gestito da Consip che consente di fare acquisti o stipulare contratti in modo veloce e trasparente. Ovviamente, la Consip si muove all’interno del codice degli appalti, e può incontrare difficoltà se non ci sono regole precise. Qui non è un problema di Consip, ma di utilizzare le procedure ordinarie. Consip compra i ventilatori, ma farà una gara internazionale. Il problema è la cornice di regole in cui si muove. Consip ha poi altri problemi che poco hanno a che fare con l’emergenza. Il valore rilevantissimo di alcuni appalti può determinare la vita e la morte delle imprese e crea aspettative e “appetiti” e genera un enorme contenzioso e a volte anche problemi giudiziari. Oggi da cittadino qualsiasi, mi auguro che si lavori per migliorare Consip, senza metterla in discussione, intervenendo sulle criticità e valorizzando gli aspetti positivi. Quanto alla fase attuale, la domanda da porsi potrebbe essere: perché il commissario Domenico Arcuri ha utilizzato Consip? Perché evidentemente sa che non ha uno strumento burocratico alternativo per fare cose così complicate allo stesso modo.

In questa emergenza così drammatica, lo Stato non avrebbe potuto optare per l’affidamento diretto al fine di accorciare i tempi degli approvvigionamenti?

Certo che si poteva fare. Anzi, io dico che si doveva fare per accelerare i tempi. Ma anche l’affidamento diretto richiede un minimo di procedure e scelte di congruità ai fini dell’aggiudicazione. Anche questa attività richiede una burocrazia all’altezza. Una burocrazia capace di interagire nei mercati internazionali. Una burocrazia, cioè, con un minimo di know-how che gli permetta di capire su quali basi avviare una trattativa diretta. Che sia in grado di mostrare affidabilità nel suo soggetto di controparte. Poi, c’è da dire un’altra cosa. L’affidamento diretto è perfetto per comprare una risma di carta. La situazione si complica se parliamo dell’acquisto di prodotti più complessi. L’affidamento diretto richiede comunque una competenza nell’individuazione di ciò che ti serve, considerando qualità, prezzo, chi sono i soggetti offerenti e la loro affidabilità. L’affidamento diretto è, in conclusione, un meccanismo semplice quando si tratta di acquistare un prodotto standardizzato. Non è così quando si tratta di acquistare un prodotto con una serie di caratteristiche specifiche.

Consip, oltre che inefficiente, è parsa poco trasparente e scarsamente ispirata al principio di legalità. In un bando per l’assegnazione di 32 milioni di mascherine pubblicato il 9 marzo, assegnava l’appalto come prima aggiudicataria a Biocrea, un’azienda specializzata nell’agricoltura. In più, il proprietario di Biocrea risultava essere Antonello Ieffi, attualmente a processo per traffico d’influenze. Com’è stato possibile?

Stiamo parlando di una vicenda ancora sub iudice. L’impressione, però, è diversa e cioè che il sistema abbia dato risposte corrette. Quando si fa una gara pubblica, chiunque può partecipare, com’è giusto che sia, poi dopo ovviamente ci saranno le opportune verifiche. Malgrado si andasse di fretta, la Consip ha sentito “puzza di bruciato” e denunciato alla magistratura.

In una sua relazione recente, il capo della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha parlato del “pericolo di un welfare che la mafia potrebbe assicurare a chi sarà in difficoltà economiche”. Vede anche lei questo pericolo? Che cosa deve fare subito il Governo per evitarlo?

Già oltre un mese fa avevo fatto una considerazione analoga, scrivendo una riflessione per un giornale: ho imparato a conoscere le realtà criminali e so che sbaglia chi pensa al mafioso come a quello che porta la pistola. I mafiosi attuano sì anche intimidazioni, ma vivono soprattutto di consenso. Qual è la prova che le mafie vivono di consenso? I latitanti vengono spesso trovati vicino a casa loro, e nessuno li ha mai denunciati. Hanno bisogno come il pane del consenso. Senza consenso, le mafie non esistono. Come si crea il consenso? Creando la zona grigia, attraverso non solo quelli che sparano, ma grazie al mondo dei “fiancheggiatori”. Ci sono interi quartieri nella provincia di Napoli, o a Palermo, ormai in parte anche a Milano, dove, se uno verificasse il reddito “formale”, rispetto al numero di persone sottoposte a procedimenti penali, dovrebbe attendersi una realtà esplosiva. Ma ciò non avviene, perché lì funziona da sempre il welfare mafioso. Non è una cosa che si è verificata adesso: in quei luoghi c’è tutto un mondo che vive attorno alle organizzazioni criminali, che in qualche modo viene finanziato dalle attività della criminalità organizzata. Il welfare mafioso offre assistenza soprattutto nelle fasi di difficoltà. Se io non ho la possibilità di far mangiare la mia famiglia, mi rivolgo a loro. Questo si è verificato in questa fase ma era nelle cose. Ora, che cosa doveva fare lo Stato? Ovviamente non poteva intervenire da un giorno all’altro, ma doveva porsi il problema e preoccuparsi di misure di tipo emergenziale. Solo così eviterà di regalare un pezzo ulteriore della società a questo consesso mafioso. Sono quindi perfettamente d’accordo con ciò che dice Gabrielli.

Il “Decreto Genova” ha permesso di semplificare le procedure ordinarie ed accorciare notevolmente i tempi nella ricostruzione del Ponte Morandi. Quali caratteri peculiari hanno permesso il successo di questo modello?

È stata messo in campo una possibilità di deroghe amplissime. La norma prevedeva all’inizio che il Commissario potesse agire in deroga a tutte le norme extra-penali dello stato. Nel primo testo non era neanche indicato il rispetto del codice anti-mafia; lo evidenziai nell’audizione che tenni in Parlamento e la norma poi venne modificata. Il Commissario ha potuto agire in affidamento diretto, per individuare i soggetti. Il modello Genova ha funzionato per una serie di ragioni che non sono necessariamente replicabili. Intanto si trattava di un’opera apparentemente complicata, ma tecnicamente non difficilissima: si trattava di ricostruire un ponte. Fra l’altro, il ponte era crollato non perché il terreno sottostante era franato, ma per un problema di fattibilità. Si è creato intorno all’opera un consenso generale e una grande attenzione dell’opinione pubblica e di tutta l’Italia. In più, dall’esterno ho avuto l’impressione che il tutto sia stato affidato a una persona onesta ed efficiente come il sindaco di Genova. Infine, nessuna impresa ha fatto ricorsi o rimostranze. Sono condizioni che non necessariamente sono replicabili. Si dice: diamo ai commissari i sotto-poteri attribuiti al commissario di Genova. Ma le esperienze dei commissari non sono affatto tutte positive; spesso ci sono gli stessi commissari per opere che vanno avanti da 30 anni. Non mi piacciono gli slogan, ma gliene dico uno: perché un’amministrazione incapace di funzionare in via ordinaria, dovrebbe diventare Spiderman con un commissario? Lo può diventare in casi limitati. Poi, un’ulteriore perplessità. Rispetto ad opere più complicate, non credo affatto che funzionino meccanismi come quello dell’affidamento diretto. E le dico di più. Premetto che io sono sempre stato contrario alla legge-obiettivo, ma preferirei quella procedura, che almeno era uguale in tutti i casi piuttosto che i commissari che si muovano con proprie regole per ogni appalto. E poi l’ultima considerazione; gli appalti bloccati e fermi che spesso ci vengono mostrati in foto sono stati regolarmente aggiudicati ed i problemi sono sorti dopo; torniamo, quindi, al punto di partenza; non è solo un problema di regole!

“L’emergenza ci potrà aiutare a semplificare le regole”, ha scritto sul Corriere della Sera. Su quali regole intervenire per semplificare il quadro?

Io credo che l’emergenza sia l’occasione per semplificare le regole. Il sistema degli appalti attuale per le tante modifiche introdotte è diventato un sistema bizantino. Prevede meccanismi complicatissimi, che riguarda anche le procedure piccole. Io comincerei, però, da quelle e semplificherei moltissimo la fase dei controlli; per avere il pagamento di mille euro è davvero necessario esibire il “Durc” regolare e avere gli stessi requisiti di affidabilità soggettiva che mi vengono chiesti per costruire una centrale nucleare? Cominciamo dai piccoli appalti, rendendo più semplici le procedure e aumentando i livelli di trasparenza. Non avrebbe senso, invece, un’amministrazione che abbia regole semplificate per i grandi appalti e finisce poi per essere bizantina per le piccole cose! Nei piccolissimi appalti, mi è capitato di vedere di tutto; chi ha fatto una piccola manutenzione urgente che non riesce ad essere pagato perché non aveva versato anni primi i contributi ad un suo dipendente! E poi c’è bisogno di stazioni appaltanti che paghino in tempo reale. Le semplificazioni in conclusione non devono andare a vantaggio di pochi e soprattutto “grandi” ma di tutti!

In tutte le inchieste degli ultimi anni, è costante la presenza di una zona grigia corrispondente con i cosiddetti “portatori d’interesse”. In Italia, tuttavia, i lobbisti non sono soggetti a una specifica regolamentazione. Si è al contempo introdotto un reato, il traffico d’influenze illecite, che sanziona proprio questa categoria non regolamentata. Non sarebbe il caso di introdurre un’apposita norma?

È vero, la norma sul “traffico d’influenze illecite” sarebbe molto più semplice da applicare se ci fosse una legge sulle lobbies. Indirettamente però la norma sul traffico d’influenze finisce per regolamentare le lobbies, perché ci dice quello che si può fare e quello che non si può fare. È indispensabile comunque una normativa in materia di lobbies. Sono stati presentati tanti progetti di legge che si sono arenati, anche perché non è semplicissimo individuare una normativa utile ed efficace. O meglio, il rischio è fare una normativa che non serve a nulla. Per esempio: moltissimi enti hanno adottato di loro iniziativa il cosiddetta registro dei lobbisti. Ma serve a qualcosa sapere che uno è iscritto? Certo questo può garantire che quel soggetto ha certi requisiti soggettivi ma non dice nulla di cosa parli con i decisori pubblici. All’Anac, avevamo sperimentato un altro criterio: l’agenda pubblica. Era uno strumento che rendeva pubblici e trasparenti gli incontri, con l’indicazione anche sommaria degli argomenti. Può essere una strada alternativa? Credo di sì. Ma il risultato pratico è che si ridusse drasticamente l’elenco delle persone che voleva incontrarmi. La trasparenza è un valore più da sbandierare che da vivere in concreto, purtroppo. In conclusione, una legge utile ha bisogno di un confronto vero con gli operatori per capire quali sono gli aspetti su cui concentrarsi.

Il Coronavirus ha cambiato anche le modalità di amministrazione della giustizia. Come si è adattata la giustizia penale ai tempi dell’emergenza?

In questo periodo si è posto un problema giusto. I processi civili e i processi penali in qualche modo devono essere svolti anche in questa fase. Per questo sono stati introdotti una serie di strumenti per lo svolgimento dei processi anche a distanza. Si sta ponendo un problema: fino a che punto questi strumenti potranno essere utilizzati per il futuro? È in corso un ampio dibattito, perché è un tema molto sentito. Io credo che sia necessario stare molto attenti. Sicuramente, alcune cose potranno essere utilizzate anche in futuro, per attività più semplici e con il consenso dell’avvocatura. Però io credo che dobbiamo continuare a rivendicare l’idea che il processo è un fatto degli uomini e per gli uomini. Il giudice che decide deve avere un rapporto diretto con le parti. Io non credo che un esame dei testimoni importante, o un esame di un imputato si possano fare allo stesso modo a distanza. A volte il giudice è in grado di comprendere sulla base di una pausa, dell’espressione del viso, di un gesto. Questi sono elementi che devono essere tenuti presenti. Approfittiamo di questa occasione per utilizzare il più possibile gli strumenti informatici. In futuro questa attività potrà essere utile per fatti marginali, ma non pensiamo all’idea che il processo possa fare a meno di un luogo fisico nel quale c’è un confronto fra le parti.

Aggiornato il 07 maggio 2020 alle ore 11:04