L’Italia dimentica minori e fragili: l’esempio della piccola Sofia

L’intero Novecento è stato spacciato all’umanità come il secolo che avrebbe reso intangibili i diritti umani, che avrebbe fissato in maniera assoluta le basi d’una società che tutelerebbe i più fragili e che sanzionerebbe i Paesi che incarcerano, torturano e uccidono i bambini. Solo belle parole, la strada è ancora tutta in salita, in gran parte da costruire e da tornare a rinforzare.

Spesso ci rendiamo conto quanto organismi come l’Onu e l’Unicef possano davvero poco o nulla per scongiurare la pena di morte inflitta a bambini nei tribunali di ricchi Paesi asiatici, o la sperimentazione chimico-farmaceutica sull’infanzia dei villaggi poveri del Centro-Africa, o l’uso di bambini-soldato nel Corno d’Africa o la carcerazione e sparizione di bambini in Colombia, Messico e Brasile. Le fonti più diverse danno cifre tra le più disparate, ma senza prendere per buona la cifra dei circa dieci milioni di fragili che annualmente sparirebbero, basterebbe che le istituzioni s’indignassero anche per un solo bambino scomparso o rapito: Missing Children Europe ha quantificato in 250mila i bambini scomparsi in Europa nel 2020, e questo è un dato certo ed allarmante.

A onor del vero, l’Italia non è più quella narrata nel film Sciuscià di Vittorio De Sica e nemmeno quella dello sfruttamento minorile illustrato nei documentari che il servizio pubblico coraggiosamente realizzava quando ancora credevamo la famiglia roccaforte della nostra società. Chi va per i settant’anni di vita forense ha certamente una panoramica chiara e netta di come funzionino le istituzioni, e sorprende che la forza economica d’un adulto possa ancor oggi determinare la vita d’un minore. Fortunatamente non tutti i rapitori di bambini possono vantarsi d’aver gabbato la legge.

Lo scorso anno ho narrato a L’Opinione la storia della piccola Sofia, la bambina rapita dalla madre (A.D.) nel luglio 2020 in Sardegna: sotto gli occhi di tutti e con l’ausilio d’un nerboruto slavo che feriva seriamente il padre di Sofia. Veniva strappata dalle braccia del genitore, ma dopo un anno di battaglie la vicenda avrebbe imboccato la giusta strada. Ho voluto darne comunicazione a lettori de L’Opinione, perché quasi un anno fa furono resi edotti di questa vicenda, e quando gli esiti erano ancora incerti. Anche perché il rapimento violento dei bambini è ormai un crimine diffuso, soprattutto quello degli adolescenti e delle giovani donne per motivi etnico-religiosi.

In queste ultime caratteristiche fortunatamente non rientra la piccola Sofia. Ma venne rapita, imbarcata su uno yacht d’un ricco amico della madre e condotta a Montecarlo dov’è residente la donna. Da quel momento, tutti i tentativi di riportarla a casa dei nonni, dove la bambina era ospite insieme al padre, fallirono per le più svariate ragioni. Prima fra tutte l’inerzia della giustizia penale italiana: perché il Tribunale di Tempio Pausania non emetteva per tempo il mandato di cattura internazionale che, di fronte alla gravità degli eventi, era d’obbligo perché avrebbe impedito altri reati collegati al rapimento. Né bisogna dimenticare che, in un primo momento i giudici monegaschi erano stati ingannati dalle bugie della madre, donna di nazionalità ucraina con passaporto americano. La madre aveva cercato d’invertire i ruoli: s’era finta vittima del padre ed aveva inventato che anche Sofia lo fosse. Aveva detto che era stato il padre a cercare di rapire la bambina, indirizzando sia la giustizia italiana che monegasca a perseguire l’uomo. L’ambasciatore italiano nel principato di Monaco, Giulio Alaimo, era stato più volte sollecitato da chi vi scrive: come avvocato avevo chiesto al ministero degli Esteri di dare istruzioni sulla vicenda al diplomatico, ma le pur doverose istruzioni non pervennero mai all’ambasciatore.

L’intero studio legale s’era mobilitato in soccorso di Sofia. Tutti i colleghi e collaboratori erano turbati dal muro di gomma istituzionale. Nonostante la gravità dei fatti, non c’era stata da parte italiana l’adeguata risposta, ed in nome delle norme giuridiche chiaramente ed impudentemente violate dal comportamento della madre. Volevamo fare qualcosa per restituire la bambina alla sua famiglia, perché una minore nelle mani di rapitori cotanto rocamboleschi certamente può riportare traumi difficilmente lenibili.

Ma sembrava impossibile, inestricabili menzogne e potenti complicità sembravano rendere inattaccabili i rapitori. Chi aveva sottratto Sofia ai suoi affetti sani gode di simpatie nei salotti internazionali di potere. Un rapimento di tal fatta si è soliti vederlo solo nei film, e certa gente che gode di complicità internazionali è per noi tutti solo roba da romanzo. Quindi la madre usava ogni pretesto, ed appoggio di potere, per impedire che il padre ed i nonni potessero anche solo rivedere la bambina: ben si comprende come normali cittadini italiani difficilmente possano competere su territorio monegasco con una abile ucraina con passaporto americano.

Oggi finalmente possiamo dire che la giustizia monegasca esiste, su quella italiana ci riserviamo una prossima puntata. Il patrocinio d’un ottimo avvocato monegasco, Sofia Lavagna (simpaticamente omonima della bimba), che spesso difende gli italiani nel Principato, ha esaudito richieste e speranze di famiglia e studio legale italiano. Finalmente ha disposto con la sua autorità che la piccola possa vedere padre e nonna, soprattutto passare con loro l’estate. Evidentemente tutto questo non può e non deve bastare. Chi ha sbagliato, e con così gravi ricadute sulla vita delle persone, dovrà affrontare le conseguenze giuridiche dei propri atti. Nel frattempo, tutto lo studio di cui faccio parte ringrazia i giudici del Tribunale dei Minori, la Corte d’Appello di Monaco e la Maître Lavagna per tutto ciò che hanno fatto per portare chiarezza e verità sul caso della piccola Sofia. E si spera anche le istituzioni italiane guardino questi casi con occhi diversi: troppo spesso l’Italia nicchia sui diritti per evitare di compromettere rapporti commerciali e diplomatici, e gli esempi non si fermano certo al Principato di Monaco, spaziano dall’Egitto all’intera Africa e volano dalla Cina alle Americhe.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati i rapimenti di bambini da parte di uno dei genitori: spesso la madre opera il sequestro in Paesi dai quali è difficile (quasi impossibile) ottenere riconoscimenti giuridici. Invece il padre, o fratelli e parenti, operano violenze e rapimenti per motivi etnico-religiosi: i casi di adolescenti afghane e pakistane sono quotidiano oggetto di cronaca. Problemi che non si possono non affrontare sia in sede europea che internazionale, perché il destino di questi minori, percossi da eventi che hanno chiare connotazioni criminali, sia salvaguardato. È il momento di varare una normativa che punisca severamente gli autori dei misfatti e protegga gli innocenti. E ci si augura che quella delle pene corporali inflitte a donne e minori in certe moschee sia solo una leggenda metropolitana, diversamente dovremmo interrogarci sui motivi d’una subdola tolleranza.

(*) Professore e avvocato

Aggiornato il 23 giugno 2021 alle ore 12:20