La Corte costituzionale: dai due cognomi alla Babele dell’indeterminato/2

Di seguito la seconda parte dellanalisi giuridica della sentenza della Consulta sulla scelta del doppio cognome.

La Corte ed un malinteso concetto di uguaglianza

Ora, se si perde di vista questa finalità del cognome, esso può semplicemente essere eliminato tanto dal mondo giuridico quanto da quello sociale, poiché perderebbe la propria funzione basilare. Fare leva sul principio di eguaglianza dell’articolo 3 Costituzione per travolgere la funzione e la sostanza stessa dell’istituto del cognome, unicamente in nome della volontà della singola cittadina di sentirsi “eguale” nel trattamento al coniuge maschio, non ha alcun senso, in quanto si confonde così l’eguaglianza di dignità tra due persone – nel caso di specie, marito e moglie – con una parificazione assoluta delle posizioni concrete delle due persone suddette, laddove invece il dettato costituzionale permetterebbe tranquillamente l’esistenza di disuguaglianze di fatto. Volendo usare una figura retorica, si è in presenza di un’ipotesi in tutto parificabile al caso di colui che, per rendere uguale ad un opuscolo un libro di mille pagine, intendesse strappare le pagine (e dunque i contenuti) di quest’ultimo: il volume di mille pagine perderebbe del tutto la propria natura e i propri contenuti, senza per ciò stesso divenire un opuscolo, e tanto varrebbe distruggerlo definitivamente, essendo divenuto totalmente inservibile.

Ebbene, ritornando al mondo del diritto, come giuridicamente sarebbe aberrante considerare, ad esempio, una violazione dell’astratto principio di eguaglianza (pur pienamente sussistente) tra due proprietari di due diversi terreni solo perché l’uno è titolare di determinati diritti sul suo terreno (come, per esempio, l’edificabilità), mentre l’altro non è titolare di simili diritti sul proprio, è altrettanto aberrante ritenere non eguali, e quindi destinate ad essere forzatamente da omologare, situazioni che sono, in effetti, tra loro diverse, seppur dietro un’apparente somiglianza: è il padre che deve trasmettere il cognome per delle ragioni psicologiche, sociologiche, antropologiche e storiche precise che lo pongono quindi in posizione diversa rispetto alla moglie, almeno per questo aspetto, e nessuna astrazione può smettere di considerare tali ragioni senza stravolgere la natura del cognome e del ruolo paterno per i figli. L’applicazione di norme come quelle costituzionali, proprio perché ampiamente vaghe, astratte e confinanti con principi e valori metagiuridici e metapolitici, vale a dire culturali, non può mancare di considerare appunto gli aspetti culturali di una decisione curiale, limitandosi invece ad un profilo esclusivamente logico-formale e per di più deviato dalla cattiva comprensione del principio di uguaglianza che, a ben vedere, non consisterebbe nel parificare posizioni tra loro diverse. Riconoscere una differenza di posizione tra i coniugi, infatti, non è una violazione dell’articolo 3 della Costituzione se si pensa che i costituzionalisti ed i teorici generali del diritto hanno sempre costantemente interpretato appunto tale articolo nel senso di riconoscere uno stesso effetto giuridico in presenza di condizioni fattuali che siano omologhe tra due soggetti, ma anche effetti diversi in presenza di situazioni in fatto diverse. La stessa Corte, a suo tempo, aveva specificato che il principio di uguaglianza è violato “quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”, postulando quindi come possano sussistere trattamenti diversi, anche in caso di eguali situazioni, laddove vi siano appunto ragionevoli motivi – che, nel caso del cognome, si sono qui esposti, alla luce di precise acquisizioni scientifiche – nonché in caso di situazioni ineguali – anch’esse presenti nel caso di specie del cognome – come del resto ammesso dalla medesima Consulta più di recente: “si ha violazione dell’articolo 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche”.

Non riconoscere le differenze di fatto tra soggetti non è una migliore applicazione dell’articolo 3 della Costituzione, ma semmai una sua vera e propria disapplicazione, frutto della mancata comprensione dello stesso, o magari di una lettura distorsiva di tipo ideologico del medesimo articolo, nonché prodotto della mancata comprensione della situazione di fatto che si è chiamati a valutare, senza dimenticare, come detto e come va ribadito, che non può l’applicazione di un principio costituzionale travolgere la necessità funzionale di un istituto (nel caso di specie, il cognome), poiché nessun principio può far venire meno il fine di un istituto senza di fatto distruggerlo e renderlo così inutilizzabile, sicché un mancato riconoscimento delle differenze tra soggetti implicherebbe anche una mancata comprensione dell’istituto in esame.

Sembra, tra l’altro, del tutto surreale che la Corte costituzionale, che pure spesso negli ultimi decenni ha utilizzato il cosiddetto principio di ragionevolezza per giudicare le leggi italiane, non l’abbia invocato in questo caso per evitare una tale aberrazione. Se infatti la ragionevolezza richiama una “razionalità pratica”, come ammesso dallo stesso giudice delle leggi, non si comprende come le ragioni pratiche in materia di cognome vengano totalmente obliate, in nome della sola logica formale che non risolve da sola, secondo la Consulta, il principio di ragionevolezza ricavabile dall’articolo 3 della Costituzione. Tanto più sconcertante è la lettura della Consulta e la sua palese irragionevolezza quanto più, registrando come la Corte non abbia considerato tale elemento normativo, si ricordi che il dettato costituzionale in materia di famiglia, all’articolo 29, co. II, prevede espressamente la possibilità che la legge permetta alcune disuguaglianze tra i coniugi nell’interesse dell’unità familiare: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

È palese che la ragionevolezza delle disposizioni codicistiche in materia di cognome sussista esattamente nella necessità di mantenere l’unità (in tale caso intergenerazionale) della famiglia, così come previsto dall’articolo 29, e dovrebbe preoccupare che la Corte, nelle proprie più recenti valutazioni, abbia finora preferito riferirsi ad elementi extra-normativi, oltre che appartenenti a una precisa e tendenziosa linea politico-culturale, come si è notato con riguardo al richiamo al “patriarcato” da parte dell’ordinanza n. 18/2021, rifiutandosi invece di fare alcuno sforzo nell’appuntare la propria attenzione su tale disposizione normativa presente nella Costituzione, al momento dell’interpretazione delle previsioni di legge in materia di cognome.

Da ultimo, è addirittura paradossale poi ritenere violato l’articolo 2 della Costituzione, come ha fatto la Corte nel 2016, ricollegandolo al diritto all’identità personale, vale a dire ritenendo che, imponendo il cognome unicamente paterno, verrebbe infranto il diritto del minore a vedere attribuito un cognome rispetto ad un altro: una tale argomentazione sfiora il vaneggiamento, dimenticando totalmente la genesi storica del cognome che non ha il fine di identificare in modo soggettivistico il singolo, bensì di far riconoscere a questi ed alla società la provenienza culturale e storica del cittadino che è un patrimonio di tipo oggettivo (perché storico) che prescinde dalla volontà dell’interessato. Il singolo, in altri termini, non ha diritto al cognome che preferisce, sulla base di una inesistente identità auto-conferitasi, bensì ha il più limitato diritto a vedere riconosciuta l’identità ambientale che deriva dal cognome che la sua specifica storia gli assegna. Non casualmente, in modo lapidario ma significativo, la Corte nel 1988 riconosceva che dall’articolo 22 della Costituzione e dall’articolo 6 del Codice civile deriva che nessuno abbia diritto alla “scelta del nome”, ma semmai un diritto al “nome per legge attribuito” e ciò è logico se si pensa che il nome ed il cognome attribuiti sono solo delle convenzioni sociali che nessuno sceglie da sé, ma che gli sono assegnate da un contesto altrui (familiare e sociale) per una finalità che non è la semplice affermazione di se stessi, bensì l’individuazione del soggetto di cui necessita l’insieme della comunità e l’individuazione dell’identità che al soggetto proviene primariamente dal contesto sociale. L’identità del soggetto, pure alla luce di anche minime acquisizioni di tipo filosofico, psicologico e sociologico, non è dunque “autodeterminata”, ma, al contrario, “eterodeterminata”, poiché l’identità di ogni soggetto (anche psicologicamente) è frutto di influenze esterne, per quanto egli possa da esse provare a prendere le distanze, sicché evocare la violazione dell’identità personale a causa di un’influenza esterna quale l’attribuzione del cognome del padre ad opera di un soggetto altrettanto esterno alla persona, come fa la Corte, è un ribaltamento completo della natura autentica della stessa identità personale: la Consulta è andata dunque contro la realtà sociologica dei fatti, in quanto nessuno può darsi nome (e cognome), o quindi men che meno identità, da se stesso.

(Continua/2)

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Aggiornato il 04 maggio 2022 alle ore 17:10