II
POLITICA
II
Mps: quella strana vendita per“addolcire”i conti
di
DIMITRI BUFFA
on solo derivati. Anche la
vendita della ex esattoria del
Montepaschi a Roma presenta
qualche curiosità che meriterebbe
di essere approfondita non sol-
tanto in inchieste giornalistiche
o politiche. L’ex esattoria del
Monte dei Paschi è stata venduta
nell’ottobre 2011 per 130 milioni
di euro, zona Colosseo, 36.000
metri quadrati. Facile divisione:
ogni metro quadrato è stato pa-
gato da Mittel R.E. sgr appena
3.600 euro. E lì il valore di mer-
cato, compresa la tarra alla crisi
attuale, si aggira sui 10mila euro.
Ma c’è di più: Mittel è una socie-
tà in cui aveva notevoli quote un
certo Zalesky, uno dei primi pro-
tagonisti, discussi, della finanza
mondiale post 2008. Perchè allo-
ra venne fatta questa operazione?
Per regalare una rendita enorme
all’affittuario che oggi loca gli
stessi locali al ministero del Te-
soro? O per abbellire i conti della
banca con un’iniezione di denaro
liquido che poi serviva a giustifi-
care le elargizioni a pioggia ai se-
nesi? Anche questo affare potreb-
be tornare sotto la lente dei
magistrati senesi, e magari anche
di quelli romani. Se ne dichiara
convinto il buon Mauro Aurigi
che fu uno dei primi a parlare di
questa storia nel 2011.
Con questi toni: «Guarda ca-
so, l’immobile è stato venduto a
una società il cui principale azio-
nista con il 19,13% è la Carlo
N
Tassara Spa che fa capo a Ro-
main C. Zaleski, che di Mittel è
vicepresidente. La Carlo Tassara
Spa è in una grave situazione de-
bitoria nei confronti del Monte
dei Paschi, di dubbia riscossione:
non abbiamo avuto la pazienza
di ricercare il documento che
esprima la cifra, basta però dire
che secondo “Il Sole 24 ore” alla
data del 31/5/2011 la situazione
debitoria complessiva verso il si-
stema bancario della Carlo Tas-
sara Spa si aggirava intorno a 3
miliardi di euro. Apprezzabile la
volontà di aiutare un amico in
grave difficoltà regalandogli un
affare interessante, ma a Siena
(Grosseto, Padova, Mantova,
ecc. che il Monte, piaccia o no,
non comincia a Monteriggioni e
non finisce a Isola d’Arbia), ami-
ci in difficoltà non ne manca-
no...». E ancora: «Tra una fetta
di pane col rigatino e un bicchie-
re di vino, si è trovato qualcuno
che lavora in banca, in città, a
cui è scappato detto: “L’esattoria
romana? C’erano offerte miglio-
ri... stendiamo un velo pietoso”.
E infatti tutti a osannare la plu-
svalenza di 34 milioni di euro,
per non vedere dietro cosa pote-
va esserci: plusvalenza che esiste
solo perché sono troppi gli anni
che la banca ha in carico l’im-
mobile e il valore catastale non
è stato aggiornato in bilancio.
Per fare comunque un buon af-
fare con il palazzo di Via dei
Normanni non serviva aver stu-
diato economia e commercio
all’università laureandosi a pieni
voti con lode. Basta svenderlo, e
magari salvare la trimestrale».
Insomma, se bastava all’epoca
un funzionario di banca in pen-
sione che si faceva una chiacchie-
rata con i suoi vecchi amici per
scoprire l’arcano, sicuramente la
magistratura senese e quella ro-
mana non dovranno faticare mol-
to per capire se tutto è stato fatto
seguendo i principi della buona
contabilità. Certo i giornali pos-
seduti dalle banche, come il
Cor-
riere della sera
, all’epoca questa
vendita la osannarono. Con titoli
di questo tenore: «Banca Monte
dei Paschi di Siena cede l’immo-
bile dell’ex esattoria di Roma a
Mittel Sgr per 130 milioni di eu-
ro”. Nel testo dell’articolo, del 3
ottobre 2011, che si trova ancora
on line ci si limita a parlare di
plusvalenze, come se fosse stato
un affarone, e a spiegare che
“l’edificio è stato ceduto dal
Gruppo Montepaschi ad un fon-
do immobiliare chiuso gestito da
Mittel R.E. Sgr spa.. La trattativa
si è conclusa sulla base di un
prezzo concordato di 130 milioni
di euro. Gli impatti attesi dal-
l’operazione sono stimati in 34
milioni di euro di plusvalenza lor-
da ed un beneficio di 3 punti base
sul Tier 1».
Un osservatore non banale, a
parte gli aspetti civilmente e pe-
nalmente rilevanti dell’affaire
Montepaschi e di tutte le sue pro-
paggini, dovrebbe meditare sui
meccanismi paradossali da pilota
automatico innescati dai vari Ba-
silea uno, due e tre. Da una parte
hanno spinto i banchieri a imbel-
lire i bilanci con tanti trucchetti
contabili e dall’altro hanno pro-
vocato danni sia all’erogazione
del credito sia ai conti stessi degli
istituti. Specialmente se si consi-
dera che oggi quegli stessi immo-
bili sono affittati da chi li comprò
dal Montepaschi (erano la storica
sede delle riscossioni da decenni)
allo stato italiano, ministero del
Tesoro, che ci ha messo dentro
tra l’altro le varie commissioni
tributarie di primo e secondo gra-
do, invece che trovare loro un po-
sto più economicamente conve-
niente per il contribuente nei tanti
casermoni abbandonati di viale
Giulio Cesare. Gli stessi in cui
hanno trovato la propria sede il
tribunale civile e del lavoro di
Roma.
L’affaire Siena riguarda tutti. Paghino i colpevoli
chiaro che se nei guai finanziari
ci capita una qualsiasi azienda,
anche se con tanti dipendenti ed
importanti azionisti, i problemi ri-
mangono ristretti a lavoratori ed
investitori (imprenditori). Ma quan-
do un simile fortunale s’abbatte su
una banca, per quanto piccina o
grande possa essere, il problema per
legge ricade su tutta la popolazione
del paese. Perché una banca, per
quanto gestita privatisticamente, è
pur sempre un organismo di diritto
pubblico. E poco vale dire “io non
pago per i disastri fatti dagli uomini
del Pd nel Monte dei Paschi”, per-
ché l’Unione europea ci rammenta
che, nei rispettivi ordinamenti na-
zionali, le banche sono “soggetti
giuridici collettivi”: ovvero, pur non
necessariamente appartenendo al
settore pubblico, chiamano neces-
sariamente in causa lo stato, quindi
i suoi cittadini. Ecco che, se una
banca fallisce la responsabilità è di
tutti noi che, irresponsabilmente,
abbiamo alimentato col voto una
classe politica che ha malamente
gestito il credito. E cascare dalle nu-
vole oggi serve a poco, piuttosto
dovremmo puntare il dito contro
chi non ha fermato il sassolino che
poi s’è fatto valanga: ricordate la
storia dell’affare Banca del Salento
verso Banca 121, e poi la creazione
di derivati su fantasmagoriche e in-
consistenti multiproprietà? Una vi-
cenda architettata tutta in casa Pds
all’indomani della morte del Pci:
un fiume di quattrini che alimentò
anche certi faccendieri d’aria To-
sinvest, quelli del mattone targato
È
“Bottegone”. Tutti fecero finta di
non vedere, soprattutto in Banki-
talia. Oggi l’Europa ci rammenta
che la mancata vigilanza ricade su
tutti gli italiani che, con dolo o in
malafede, hanno evitato di fermare
il sasso che s’è in 20 anni fatto va-
langa.
Al riguardo L’Ue è già pronta a
metterci tutti in mora, applicando
una definizione fornita per la prima
volta con la direttiva Ue 92/50: ov-
vero siamo chiamati tutti a ripia-
nare “qualsiasi organismo istituito
per soddisfare specificatamente bi-
sogni di interesse generale aventi
carattere non industriale o commer-
ciale”. Ovvero, il ripianamento di
bilancio d’una banca ricade sui cit-
tadini dell’intero paese, nessuno
escluso. E perché si tratta di soggetti
giuridici patrimonializzati control-
lati (o sovvenzionati) dallo stato o
da un altro ente pubblico. Ed è ba-
stevole il semplice vincolo di vigi-
lanza con Bankitalia per imporre a
tutti gli italiani di mettere mano al
portafogli per qualsiasi fortunale
che s’abbatta un qualsivoglia isti-
tuto di credito.
E che le banche siano obbligate
ad osservare la “procedura dell’evi-
denza pubblica comunitaria” lo
sanno anche le pietre. Ma a molti
ha fatto comodo non fermare il
rimpallo di responsabilità, e perché
tra le “persone giuridiche di diritto
pubblico” ci sono tutti gli obiettivi
della malagestione politica italiana:
ovvero enti pubblici territoriali (Re-
gioni, Province e Comuni), associa-
zioni e consorzi, università, Ipab e
quella sequela d’enti nel campo
agricolo che di fatto alimentano da
decenni le cinghie clientelari. L’Eu-
ropa ci osserva da tempo, ecco che
per arginare le pappatoie (soprat-
tutto su banche ed appalti) veniva
partorita la direttiva 71/305/Ce (no-
tare che parliamo di Ce, quindi già
prima dell’Ue).
Secondo un pronunciamento
della Corte europea di Giustizia
(sentenza del 10 novembre 1998)
sarebbero tre i parametri sintoma-
tici della natura pubblica (anche co-
munitaria) dell’organismo di “di-
ritto pubblico”: il possesso della
“personalità giuridica”, il fine sta-
tutario (soddisfare bisogni di inte-
resse generale), la sottoposizione ad
una “influenza pubblica”. Potrem-
mo dire che il caso del Monte dei
Paschi è da manuale. Nello specifi-
co, in considerazione dei suoi azio-
nisti, la banca rientra proprio nella
Direttiva Ce 18/04, ovvero organi-
smo «la cui attività sia finanziata
in modo maggioritario dallo Stato,
dagli enti pubblici territoriali o da
altri organismi di diritto pubblico
oppure la cui gestione sia soggetta
al controllo di questi ultimi oppure
il cui organo d’amministrazione, di
direzione o di vigilanza sia costitui-
to da membri dei quali più della
metà è designata dallo Stato, dagli
enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico». Tutti
noi siamo chiamati a pagarne i
danni, comunque è giusto ci si ri-
valga civilmente e penalmente su
chi ha amministrato sia il Monte
dei Paschi che le banche solite in-
trattenere rapporti con l’antico isti-
tuto senese, fossero anche banche
minori aduse a scontarne cambiali
(i giochi di complicità sono evidenti
e dovuti a raccomandazioni politi-
che).
E dobbiamo ringraziare la Corte
di Giustizia europea se oggi si pos-
sono chiamare in correità tutti gli
“unti” dal Monte di Paschi. E per-
ché la Corte ha ritenuto di dover
fornire una interpretazione esten-
siva, operando così in parte una so-
vrapposizione tra organismo di di-
ritto pubblico e impresa pubblica:
per evitare agli Stati membri di
escludere direttamente da tale am-
bito società commerciali sotto con-
trollo pubblico, sebbene con carat-
tere di diritto privato.Certo che al
Pd, come ad altri soggetti politici,
avrebbe fatto comodo veder esclu-
dere dalla nozione di “organismo
di diritto pubblico” tutte quelle im-
prese pubbliche (o società) che sop-
portano direttamente il “rischio
economico della propria attività”.
Ma stare nell’Ue non è un gioco ed
i vari chiarimenti sulle imprese ita-
liane, che operano in regime con-
correnziale sul mercato, ha messo
con le spalle al muro manager pub-
blici e banchieri. Credevano tutti si
potesse perpetuare all’infinito la sa-
ga dei “boiardi di stato”, gestendo
con spavalderia privatistica orga-
nismi di diritto pubblico. Ma il caso
dell’Mps ci ha dimostrato che si
tratta di casi noti e ormai facilmen-
te circoscrivibili.
Poi c’è quel macigno, la sentenza
della Corte del 1º febbraio 2001
(causa C-237/99, Commissione -
Francia), attiene all’individuazione
d’un organismo che svolga «attività
diretta a soddisfare esigenze gene-
rali», come le banche per esempio.
Attività su cui uno stato preferisce
mantenere direttamente un’influen-
za determinante, per incidere a so-
stegno di industrie e commerci,
esercitando la propria attività in un
sistema in regime di concorrenza:
sembra che anche in questo caso la
parolina banca caschi a fagiolo. Po-
sto che sarà difficile uscire da que-
sta Europa, è il caso che noi italiani
non si paghi due volte, ovvero per
rimanere nell’euro e per coprire la
mala gestione di certi vecchi califfati
politici. Il rimpallo di responsabilità
non regge, e non si pecca certo di
giustizialismo quando si chiede il
blocco dei beni di chi ha partecipa-
to alla catena di Sant’Antonio di
Mussari e compagni.
RUGGIERO CAPONE
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 31 GENNAIO 2013
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