Un Natale speciale   al Teatro Argentina

Vi piace il presepe? Dipende... Soprattutto dai... personaggi, quando si tratta di una composizione vivente e dinamica, come quella imbastita dal regista Antonio Latella, nella sua davvero singolare rivisitazione del dramma edoardiano, “Natale in Casa Cupiello”, in scena al Teatro Argentina di Roma, fino a Capodanno. Aperto il sipario, ecco il primo effetto speciale: tutti gli attori della compagnia si presentano allineati, a bordo del palcoscenico, inquadrati come le frasi di in un immaginario pentagramma, in cui le voci rappresentano i tasti (tutti neri e uno solo bianco) di un pianoforte scordato.

La prima corda a comparire, stridula e irosa, è quella di Lucariello, che duetta napoletanamente con la consorte, Concetta, lamentandosi del freddo patito durante la notte, e disprezzando il gusto del caffè bollente, appena preparatogli dalla moglie. Lucariello, scrivendo nell’aria parole e concetti, fonti della polemica in via di svolgimento, ne evidenzia, con gesti decisi e bruschi gli accenti gravi. Una mano invisibile, poi, tocca ritmicamente, ora leggera, ora grave, quei tasti neri uno alla volta, divertendosi, tra un’apparizione e l’altra dei personaggi, a scorrere le scale musicali, lungo l’intera tastiera. Ed è così che, mossi come da una corrente alternata, gli attori in scena pronunciano all’unisono, al di sopra della massima ottava consentita, le stesse frasi, avvolgendo il testo teatrale in un’atmosfera vagamente lugubre e farsesca. E ogni voce solista si costruisce da sé la scena che lo riguarda. Sicché, al vuoto assoluto scenografico (fatta astrazione per una gigantesca stella cometa, che sbarra le retrovie alla prima linea), si contrappone l’intenso, monocorde, riempimento del copione originale di Eduardo. E la prima magia sta proprio lì: in quell’apparente mancare di tutto, in realtà, non ci viene sottratto nulla.

Perché tutti noi siamo invitati a divenire scenografi a soggetto, ognuno attingendo ai propri ricordi d’infanzia, per sistemare oggetti, suppellettili e pareti, così come ci viene suggerito dal copione, immaginando l’ambiente misero risultante, in cui fluttuano leggere le vite gravi dei personaggi, proprio come quegli accenti che Lucariello non cessa di disegnare nell’aria ferma. In primo piano, muto per tutta la rappresentazione, un uomo senza volto e vociferante, che stringe, a mo’ di bambola di pezza, simbioticamente, uno scimmione di stoffa: quel primitivo che è in noi; che non si esprime mai a parole, ma sta al fondo scuro dei nostri gesti; quel nostro doppio istintuale, che risiede nella pancia e nel ventre, prima ancora che nel cervello. Poi, allorquando si schianta l’onda gigante sullo scoglio del cristallino, e poi si ritrae, veniamo trascinati dal suo vortice schiumoso all’interno delle cavità intime di una famiglia infelice, che cresce un figlio adulto nella nullafacenza, ed è costretta a subaffittare una delle stanze a Pasqualino, fratello zitello di Luca, accanito e sfortunatissimo tentatore della dea fortuna.

Lui, che per tutto conforto della malattia, ha visto il nipote, lo sfaccendato manolesta Tommasino - reso immortale dalla sua voglia di zuppa di latte - portargli via cappotto, scarpe e perfino le bretelle, dando per scontato il decesso dello zio. Poi, a fatica, minacciato dal padre Luca, lo stesso Tommasino inserirà con... riserva, Pasqualino nella sua preghiera di Natale. Protagonista inanimato e onnipresente: il presepe di casa Cupiello. L’oggetto più avversato dalla famiglia, e che verrà demolito dalla furia della figlia grande, reduce dall’ennesima lite coniugale. E perfino Tommasino, dissacrante e provocatore, non si farà scrupolo di centrare, con il lancio di una mela, il povero San Giuseppe, con la scusa di colpire la mosca che gli si era poggiata sulla testa. Più in là all’epicentro del dramma, ascolteremo risuonare, per decine di volte, la flebile voce di Eduardo, che ripete ossessivamente il passaggio in cui si accinge a ricostruire il suo presepe distrutto, sfilandosi dal caos familiare montante. E, poi, ecco apparire il nerboruto, un po’ “grossier”, genero di Luca, mitizzato dal suocero, semplice custode di una tipografia, che lo ammira come si farebbe con un dio pagano, perché Nicola è un imprenditore dell’industria tappezziera e dei bottoni, con “centinaia” di operai, che gli affollano la testa di “pensieri”.

Magnifica “reddition” di Eduardo, quando lascia dialogare la miseria con la ricchezza, senza mai accorciare le distanze tra le due. Il cambio scena ci porta, poi, a un altro effetto speciale, altamente simbolico. Tutti i personaggi (le tre voci narranti comprese, gender e transgender) si caricano di ingombranti pupazzi di stoffa, che simboleggiano gli animali del presepe, scambiandoseli tra di loro, in un tripudio di gesti non-sense, utili a far salire - con l’aiuto di un brano musicale ossessivo, a tutto decibel - l’adrenalina di chi osserva la scena, preso al laccio da quelle dinamiche scomposte, irragionevoli. Sullo sfondo appare un carrozzone sormontato da un’enorme teca di vetro, di quelle che si usano in certi rettilari, in cui vengono ospitati i veleni animali più potenti al mondo.

Per tutto il resto della rappresentazione, il carrozzone a un solo tirante è trainato da una sofferente e sconvolta Concetta. Perché sulla donna e madre di casa Cupiello (così come accade per molti milioni di altre famiglie nel mondo) grava la responsabilità di sostituirsi a un Uomo-Atlante, ormai troppo malato, a causa della sua impotenza. E lì, all’interno della teca-sarcofago (tale, infatti, diverrà nel finale, ospitando il corpo esausto di Concetta e di tutti gli animali di pezza, come un’Arca di Noè alla rovescia), che si svolge la parte più dolorosa del mondo-scimmia circostante: uno zio che è più ladro del nipote malandrino; una figlia, Ninuccia, che si vendica dei continui tradimenti del marito, dandosi al suo amante, Vittorio, e portando, così il disonore in casa Cupiello. L’evento scatenante del dramma, risiede nella doppia leggerezza di Tommasino (che porta in casa il suo amico Vittorio, alimentando, involontariamente, il circuito passione-tradimento-vendetta) e di Lucariello che, all’oscuro di tutto, invita Vittorio a partecipare al pranzo natalizio, prodromo di un duello rusticano tra Nicola, e l’amante di sua moglie.

Fino a schiantare il povero cuore di Lucariello, commuovendo alle lacrime il cinico Tommasino che, finalmente, dirà a un padre colto da ictus: “Che bello o’ presepe!". Visione utile, soprattutto a chi intenda andare molto oltre le apparenze, guardando diritto negli occhi il mondo dissacrante di Latella e dei suoi attori (tutti, davvero, bravissimi!).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28