Paranza, applausi  al Teatro India

Come si dice, “transumanza dal malessere al benessere”? Paranza, secondo gli autori e i registi dello spettacolo omonimo, andato in scena al Teatro India di Roma. Quattro attori, davvero... robusti, portano in giro una pesante croce di metallo montata su gusci metallici vuoti, malamente arieggiati, come le vite semidistrutte dei loro personaggi.

L’apertura è simbolica: tre cubi in reticolato tubulare leggero, che servono da sportelli per i reclami, di fronte ai quali si vedono, in prima linea, tre personaggi agitati, che apostrofano, con voce alterata, disperatamente, altrettanti fantasmi burocratici. Loro, i protagonisti: tre perfetti stereotipi delle nuove povertà, alla ricerca incessante del riconoscimento dei propri diritti negati, in quanto vittime, schiacciate e umiliate da una burocrazia incolore, indifferente, impotente, e insensibile.

I personaggi sono emblematici di una società-tipo (quella italiana ne è un perfetto esemplare!), che ha dichiarato fallimento, con il suo welfare malato terminale: una terremotata (Alessandra Roca), ex benestante e colta, rimasta senza casa, costretta a vivere nella propria auto (unico bene sopravvissuto alla catastrofe), con la figlioletta; un’anziana marginale (Nené Barini), bisognosa di cure e ripudiata dalle strutture sanitarie pubbliche della lungodegenza; una cantante di talento (Germana Mastropasqua), rimasta senza lavoro, rassegnata a vendere la propria voce; e, infine, un ex manager (Filippo Luna), licenziato, come altre centinaia di suoi ex impiegati prima di lui, e sottoposto a una sorta di inaccettabile, ma pur tuttavia, irreversibile contrappasso.

Poi, quegli stessi cubi diventano altrettanti loculi: lo scheletro dell’auto della terremotata (in tutti i sensi), con le quattro... “finestre” velate da tendine di carta, che le ricordano gli agi passati, come una bella casa di famiglia, con il padre-direttore di giornale; un tugurio per l’anziana; un riparo di fortuna per il manager senza più futuro. Il tutto, introdotto da una Madonna coronata, dalla voce incantevole, che intona canzoni struggenti, mentre gli altri tre, sullo sfondo, fanno da controcanto e da strumenti vocali.

Da lì, la decisione improvvisa: visto che gli uomini non fanno miracoli, allora meglio organizzare una bella paranza (sorta di portantina con statua gigante sovrastante, trainata a spalla da fedeli penitenti, che l’accompagnano in pellegrinaggio a piedi nudi, cantando, digiunando e astenendosi dal bere, durante tutto il percorso), per chiedere ai santi in Paradiso il Miracolo di un lavoro. Così, con una piccola magia, i tre cubi vengono sovrapposti tra di loro, e poggiati su due lunghi bracci orizzontali paralleli, muniti alle loro estremità di robuste protezioni in stoffa e spugna, per attutirne il peso. Il baldacchino, tra attimi di riposo e lunghi movimenti, con passi di danza appena accennati, dondola pesantemente sulle spalle dei quattro sfortunati, che offrono in sacrificio al cielo le loro sofferenze, intonando canti strazianti di invocazione al soprannaturale, perché le loro pene abbiano un termine. Così, faranno incontri poco rassicuranti, come quello con la solita politica delle chiacchiere, che promette - senza mai mantenere - una soluzione, in cambio di voti.

Il loro percorso di flagellanti è costellato di confessioni e riflessioni sui vissuti personali, attraverso cui i quattro sconosciuti prendono confidenza dei disagi esistenziali rispettivi. E come i galli di Renzo (che si beccano prima della decapitazione), o come certi dannati dei gironi danteschi, cercheranno di divorarsi l’un l’altro, per sentirsi nobili, nell’ignobiltà e nella povertà materiale degli altri portantini-questuanti. Perché l’essere umano è così: vuole trovare conforto alla propria marginalità, irridendo quella altrui; ergendosi su di un piedistallo immaginario, senza punti di appoggio sottostanti. E sarà proprio questa librazione nel vuoto esistenziale, nel futuro senza speranza, che spinge all’auto-annientamento, a far scoprire a ciascuno di loro la fortitudo della solidarietà reciproca. Perché la grandezza umana sta’ proprio tutta lì: nel riconoscersi; nel porgere la mano tesa a chi sta affondando, per ancorarlo alla vita, estraendolo a forza dalle sabbie mobili, di cui si va, strada facendo, popolando la sua mente.

Paranza è, e coincide, quindi, con la ricerca di un rimedio soprannaturale alla società dell’esclusione, la cui unica forma inespugnabile di inclusione rimane, finché durerà la specie, quella dell’umanità della Paranza, in risposta all’attuale disumanesimo dell’organizzazione sociale che rispetta, e tiene conto, esclusivamente, dell’avere, senza più amore e considerazione per l’essere.

Complimenti vivissimi ai quattro attori-cantanti portantini, che hanno veramente faticato per arrivare sino in fondo al loro spettacolo!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:25