La Napoli di De Filippo al Teatro Parioli

Si può rimanere napoletani lontano da Napoli? E per non perdere quello spirito è davvero dolorosamente necessario adagiarsi sul pauperismo e sul tirare a campare? Su quel fatalismo, cioè, che ti porta perfino a non voler vedere i tradimenti della tua compagna, che si concede a uomini brillanti e di successo, gridandoti in faccia i tuoi fallimenti? Ma è proprio vero, allora, che Napoli è un immenso teatro a cielo aperto? Sembra proprio di sì, stando alla pièce “La fortuna di nascere a Napoli”, scritto, diretto e interpretato da Luigi De Filippo - nel ruolo del “Professore” - in scena al Teatro Parioli fino al 17 aprile.

Un teatro, quello di Luigi, che fa riferimento a un vulnus fondamentale, per il costume, la morale e la cultura della Napoli post-terremoto dell’Irpina (1981), in cui la civiltà non solo legalitaria ma soprattutto intellettuale partenopea varca la soglia del non ritorno. Un salto all’indietro di cui ancora oggi non si vede la fine della discesa e del precipizio in cui sono rovinosamente franate le tradizioni e la moralità di Napoli.

I fatti sono ambientati nel 1985, in un ampio salotto piccolo-borghese con un’ampia finestra sul cortile, in cui due coppie male assortite di artisti di terz’ordine si ritrovano per un’occasione imperdibile: un amico importante, famoso regista, autore di testi musicali e conduttore televisivo ha annunciato la sua trasferta da Roma per incontrare i vecchi amici di un tempo, con i quali aveva mosso i primi passi a Napoli come regista teatrale di matrice sessantottarda. E il professor Luigi, con la sua recitazione fondamentale, dai gesti pacati e dalle frasi sobrie e scolpite nel buon senso, di grande saggezza e sapienza popolare, ci porta nel cuore del problema senza mai farsene accorgere: ovvero, la sterile evocazione del mito del salvatore mecenate, che tutto risolve e cura, come il parente che ha fatto fortuna emigrando in America e che viene da “fuori” come un messia per condividerla con i suoi compaesani.

In questa commedia “Lui” si degna di scendere per un giorno nel purgatorio dell’ex regno borbonico, ormai ai margini dell’impero e lontano anni  luce dal nuovo centro del potere geografico: Roma. E l’intera rappresentazione ruota attorno a questa alternativa di “restare a Napoli” (come in qualsiasi altra grande città senza prospettive di crescita e lavoro), o tradire quella grande Madre, fuggendo verso un Altrove che non riconosce e rinnega la napoletanità stessa, che è una sorta di “effetto speciale”, in cui i drammi personali si trasfigurano sistematicamente nella farsa. La morale cercata si mimetizza dietro un paravento di urla sguaiate, minacce e insulti, attraverso il quale le due coppie protagoniste riesumano gli scheletri della loro convivenza claudicante e malata, con le costole ben in vista e doloranti, graffianti come roseti sfioriti che mostrano solo le spine dei tradimenti, della disistima per il partner (entrambe le donne, poi, sono state amanti e fidanzate del mitico ospite atteso da Roma), pur contraffortati dal bisogno disperato di stare insieme e ritrovarsi.

Affiorano prepotenti gli scogli materiali dei bisogni quotidiani, come quello di trovare una sistemazione lavorativa al figlio poliomielitico e disoccupato del professor Luigi. Il centro (intellettuale, simbolico e di principio) del problema tende a sfuggire come un capitone a Natale, travisato da figure macchiettistiche, patetiche e umanissime, come quelle della figlia della portiera dalla gravidanza avanzata, di sua madre, dell’improponibile parrucchiera e di un piccolo boss di rione, che si erge a paladino dei diritti violati della ragazza incinta. E, ancora una volta, il tutto si condensa nelle nebbie del racconto di “Aspettando Godot”. Nota di colore: impressionante la somiglianza di Luigi con il padre Peppino!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34