La felicità di Virzì:  “La pazza gioia”

Più che la Palma d’Oro Paolo Virzì meriterebbe una copia del “Santo Graal”. L’umile coppa dell’ultima cena da cui bevve il Cristo prima di essere crocifisso e nella quale Giuseppe d’Arimatea ne raccolse il sangue dopo la sua crocifissione. Da qui la leggenda sui suoi misteriosi poteri mistico-magici.

“La pazza gioia” è un calice dolceamaro, in cui le forti emozioni viaggiano sulle gambe di due bellissime donne. Da un lato, troviamo Valeria Bruni Tedeschi nei panni di Beatrice (una ex straricca mitomane dalla loquela inarrestabile, che ha dilapidato un immenso patrimonio a beneficio del suo amante, noto avventuriero e malfattore). Dall’altro, il suo dolente contrappeso, Micaela Ramazzotti che impersona Donatella Morelli, una ex cubista drogata, tatuata e psicologicamente fragile, rea di mancato infanticidio alla quale è stato tolto il figlio per darlo in adozione. Luogo di incontro delle due è Villa Biondi, un istituto terapeutico per donne che sono state oggetto di sentenza da parte di un tribunale e che debbono sottostare a una terapia di recupero.

Non poche sono le figure chiave che troviamo disseminate nel percorso di fuga delle due donne, così diverse tra di loro e pur tanto simili. Ma due, in buona sostanza, sono gli elementi di fondo che lo straordinario e commovente racconto degli autori Virzì- Archibugi suggerisce allo spettatore. Il primo riguarda la specifica di una condizione umana coniugata al femminile. Cioè di come due donne sappiano capirsi e amarsi nella loro purissima qualità di esseri umani La straordinaria interpretazione di Bruni Tedeschi e Ramazzotti, infatti, fa emergere a un meta livello la categoria di sentimenti che va oltre il disfunzionamento mentale: un aspetto quello da loro adombrato che si eleva ben oltre il dismorfismo e la dispercezione del mondo reale connaturati con i disturbi mentali. E lo si capisce strada facendo, letteralmente. Grazie a Beatrice. Che viene da un mondo di fiaba, ingioiellato di buon gusto e bellezza e che è una “diversa”. Perché Beatrice “sniffa” i sentimenti. E si fa amare in un tempo assoluto da terapeuti, ex mariti e persone comuni. La sua psiche è rivestita di sogno. Donatella, invece, ha una bontà spaventata dal mondo di fuori e sa far male solo a se stessa, chiusa nel suo indescrivibile dolore che ne stravolge il bellissimo volto; resa orfana anzitempo dagli strazianti abbandoni di tutta una vita: il compagno da cui ha avuto l’unico figlio che la rinnega e la disprezza; suo padre così mitizzato e fallito, da sempre lontano; una madre assente e interessata unicamente a se stessa; un figlio dato in adozione a una famiglia sconosciuta.

Attorno a loro si muove un’équipe basagliana di terapeuti, psichiatri, psicologi, paramedici e suorine di carità. E non sono di certo esteticamente belle quelle figure di contorno. Ma sono ultrareali: come se i loro personaggi fossero cloni esatti dei tanti veri che trascorrono le loro vite dolenti e martoriate in analoghi luoghi di cura delle malattie mentali. Il legame tra Beatrice e Donatella si rivela subito per quello che è: preistorico e a-storico. Qualcosa che viene dal remoto lontano e non ha paragoni con le descrizioni presenti. Un legame invincibile. Quello che alcuni (del tutto impropriamente) insistono a vedere nell’equazione dell’entanglement quantistico (due particelle che si sfiorano a un certo istante conservando per l’eternità la memoria del loro incontro), sarà al contrario il legame che le farà stare bene soltanto se unite. Struggente è l’incontro casuale di Donatella con il figlio, al quale ha lavorato da sapiente e maestra di vita Beatrice, che di Donatella ha intuito in un attimo tutte le virtù nascoste. Compresa quella di lasciare che suo figlio resti dov’è, in quegli affetti ritrovati ed a lei sempre negati, accettando il suo anonimato che farebbe paura ai più.

Il secondo aspetto riguarda il metodo psichiatrico. Il direttore sanitario e la responsabile delle terapie (innamorati silenti) attuano uno schema di rigenerazione della personalità attraverso il massimo potenziamento del collettivo. Le detenute-pazienti non sono mai soggetti di studio o casi clinici, ma “persone” che nella follia conservano, appunto, un “quid” incorruttibile che riguarda la percezione dell’anima e trascende il senso di realtà. Film cult, intramontabile.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:30