Quel che resta dell’arte

Ne l’Idiota, Fëdor Dostoevskij (1821-1881) affida al principe Myškin la convinzione che la bellezza avrebbe potuto un giorno salvare il mondo. Dall’inizio del XX secolo e in particolare negli ultimi decenni, il bello - inteso come ingrediente insostituibile della produzione artistica - è stato addirittura estromesso o, quanto meno, è naufragato in un oceano di esperienze artistiche provocatorie.

In gran parte dell’arte contemporanea, esso ha lasciato il posto non tanto al brutto, con il quale ha peraltro convissuto per secoli, ma, tutt’al più, all’interessante. Negli ultimi decenni, infatti, l’arte sollecita l’attenzione del fruitore attraverso proposte inusuali, trasgressive e spiazzanti, pronte ad essere dimenticate e sostituite da altre istallazioni e performances altrettanto inusuali, trasgressive e spiazzanti. Scandalosa è infatti la natura dell’interessante: autodistruggersi ed autoeliminarsi per lasciare spazio ad una successiva trovata in grado di catturare l’interesse, all’apparenza onnivoro, del pubblico. La cultura sembra aver esaurito tutte le sue possibili forme ingenue e ha bisogno dell’interessante, cioè di qualche cosa che ci metta in continuo in stato di eccitazione, che ci dia una scossa intensa, una specie di pungolo che può muovere la nostra curiosità.

Eppure, pochi se ne accorgono. Infatti, se ci limitassimo a leggere ciò che scrivono curatori critici ed esperti di marketing saremmo indotti a ritenere che il pubblico dell’arte sia costituito solamente da soggetti pronti ad apprezzare qualsiasi iniziativa etichettata come artistica. Ovviamente, le Istituzioni non aspettano altro e non solo perché in tal modo vengono giustificate le loro scelte e i relativi investimenti finanziari, ma anche perché vengono legittimate a perpetuare princìpi e atteggiamenti pseudo-pedagogici della cui genuinità, peraltro, è lecito dubitare.

Certamente, le interminabili code, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, in attesa di percorrere il ponte di Christo ci fanno pensare che l’abbattimento dei confini fra il mondo della comunicazione per immagini e quello delle opere d’arte, abbia dato luogo ad una sorta di doppio transito: dalle espressioni della quotidianità a quelle artistiche e viceversa. Ogni cosa è, attualmente, totalmente traslata nel visibile al punto che l’arte si ritrova, per così dire, trasferita nella vita di tutti i giorni: qualsiasi esperienza, dalla visita ad un’esposizione allo shopping assume una valenza estetica, prova indiscutibile del superamento dei confini fra ciò che è arte e ciò che non lo è. Tale estetizzazione diffusa traccia uno scenario culturale in cui domini prima separati, come quello dell’arte, della politica, dell’economia si ripiegano gli uni sugli altri. Se la diffusione dell’arte in tutte le sfere dell’esistenza ha permesso il realizzarsi di sogni avanguardistici, essa ha, nel contempo, sancito la fine del suo statuto di fenomeno separato e trascendente. L’arte è ovunque ma l’assenza di regole alle quali far riferimento per differenziarla da altri oggetti, non fa che impedire una sincera attenzione ai fatti dell’arte.

Il passaggio dal paradigma moderno, fondato sull’interesse per il valore artistico dell’opera - secondo il quale tutto ciò che le è esterno è in funzione del suo valore intrinseco - e il paradigma contemporaneo - secondo il quale l’opera d’arte si pone come pretesto per l’attivazione di una rete di connessioni, discorsi, effetti che alimentano una situazione indefinita fra l’arte delle opere e la comunicazione d’arte, è compiuto a vantaggio esclusivo delle istituzioni (grandi musei, esposizioni internazionali, amministrazioni pubbliche, ecc.), che hanno assunto un ruolo strategico sia sull’arte delle opere sia sulla comunicazione d’arte. Tale ruolo è giocato, per così dire, su due livelli: quello dell’attribuzione del valore dell’opera in quanto tale e quello dell’evento mediatico. Curatori, sovrintendenti e critici, nell’apparente indifferenza per un pubblico privo di qualsiasi resistenza, disposto a lasciarsi distrarre o affascinare dalle ballerine di Degas quanto dalle performances di Christo, organizzano eventi sempre più costosi, spesso eccessivamente costosi, ideati e programmati per ottenere grandi flussi di visitatori.

In Italia, infatti, il rapporto tra arte e pubblico presenta molte anomalie e le amministrazioni pubbliche alimentano questo discutibile gioco, sine vera cura per il pubblico. La relativa facilità di spostamento, ha posto all’Italia un problema di competitività su un terreno, come quello del turismo, in cui non sembrava ci potessero essere criticità. Questo ha “costretto” le pubbliche amministrazioni a rendersi conto che il modello italiano non era più in grado di reggere a proposte di altri Paesi, pressoché equivalenti sotto il profilo qualitativo. L’offerta turistica italiana ha, infatti, messo a nudo la precarietà di una politica che faceva leva soprattutto sulla bellezza delle risorse naturali del territorio, nell’illusione che, qualora fosse compromessa, la buona cucina e la cortesia sarebbero state sufficienti ad attirare il turista. Posto che esse rappresentano una parte rilevante per l’economia italiana, è chiaro che tutto ciò è plausibile se si pensa a città come Venezia, Firenze e Roma, ma non se le si esclude. Esistono, infatti, sotto il profilo cultural-turistico “due Italie”: l’una quella delle città d’arte, l’altra quella dei centri piccoli e medi i quali, pur avendo qualche ricchezza culturale e artistica, sono praticamente esclusi dagli itinerari classici. Per questo, la scelta di puntare sul binomio Cultura-Turismo, significa che anche le pubbliche amministrazioni dei piccoli e medi centri hanno capito il ruolo trainante, almeno in termini ideali, dell’arte e coltivano la speranza che essa possa incidere sulle dinamiche di attrazione e di ricettività del loro territorio.

Il passaggio dal paradigma moderno, al cui centro vi era l’interesse per il valore artistico dell’opera, al paradigma contemporaneo, secondo il quale l’opera d’arte si pone come pretesto, come occasione per l’attivazione di una rete di connessioni, discorsi, effetti, è ormai maturo. Non solo le grandi esposizioni e i grandi musei ma anche le pubbliche amministrazioni manifestano un’attenzione interessata nei confronti del pubblico, il quale è ormai paragonabile a una sorta di giocatore di scacchi che partecipa a una partita senza conoscere le regole del gioco. Se i curatori e i critici si esprimono in nome degli artisti, le istituzioni, facendo loro il verso in nome del turismo, riallacciano un’alleanza interessata a patto che si tratti di artisti sufficientemente trasgressivi, comunque noti. Le politiche culturali in tempo di crisi manifestano tutta la loro fragilità proprio nell’obiettivo palese di ottenere una maggiore visibilità degli investimenti e un immediato ritorno di immagine. Insomma, la cultura è, nonostante le apparenze, più che mai concepita come un investimento fondamentalmente improduttivo per non dire estraneo ai “veri” bisogni dell’uomo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:18