Viaggio urbano a Nazareth in “Wajib”

“Wajib”, il film della regista e poetessa Annemarie Jacir, con Mohammad Bakri e Saleh Bakri, uscirà nelle sale il prossimo 19 aprile e racconta come a volte l’ideologia si sposi (anche letteralmente!) con le costellazioni familiari.

Perché la diaspora tra ribellione e rassegnazione nella storia palestinese mette radici persino nei meccanismi complessi del registro degli affetti tra padre e figlio, imprigionandoli in un confronto talvolta impietoso e duro tra chi, pur giovane, vuole che il passato prossimo della ribellione all’occupante si riproduca nel presente e chi, da uomo anziano, vive con dolce rassegnazione il tempo dato. Triste, certo, ma forse inevitabile per le vecchie generazioni assecondare il principio di realtà su cui si accomoda la saggezza dell’esperienza, che depone l’utopia per la mera sopravvivenza nelle condizioni date e per le ragioni solidissime della conquista del pane quotidiano di chi è rimasto da solo con due figli da crescere. Il set, in definitiva, è una vecchia Volvo su cui i due si spostano di continuo per andare a consegnare gli inviti di nozze di Amal, sorella di Shadi, a parenti e amici.

Dal punto di vista tecnico, sonoro e immagini (la più parte del tempo concentrate sui primissimi piani di padre e figlio, che sono tali nella finzione come nella realtà!) ci restituiscono con una naturalezza stupefacente fatti, accadimenti e profili dei vari personaggi, in cui nessuno in realtà è superfluo o riempitivo. Al contrario, le singole persone o i gruppi compositi, l’interno come l’esterno delle loro case funzionano da tessere fondamentali per la composizione a mosaico del disegno della narrazione a mosaico della società arabo-palestinese di Nazareth, complessa, equilibrata e armoniosa come i borghi d’arte antichi della Vecchia Europa e dello scomparso Medio Oriente pacificato.

E questa atmosfera impagabile dell’antico borgo, delle sedute degli anziani e delle anziane, del loro discorrere sugli usci delle case allineate alla strada, riecheggia sia nei dialoghi che nell’ambientazione urbana, con il suo circo di personaggi, arredi urbani e ordure maleodoranti e onnipresenti allineate in cumuli desolati lungo vie e piazze, che una municipalità palestinese assai male in arnese non riesce a raccogliere. Tutto intorno ai due protagonisti si miscelano in modo disarmonico e anti ironico i vissuti della Nazareth araba con quelli divisi, inarticolati, blindati allo sguardo e alla compenetrazione, dei nuovi insediamenti ebraici che nascondono la loro umanità separandosi fisicamente dagli scomodi concittadini non israeliani. Qui (e in questo il film è davvero un piccolo capolavoro di ambientazione!), seguendo l’antica tradizione araba, si fa l’ingresso in un mondo cristallizzato in cui ogni parola, ogni gesto è solennizzato: l’Altro è sempre colto in tutti i suoi aspetti poliedrici, in base ai suoi legami di parentela e di amicizia, ai suoi gusti e alle sue speranze.

Il dire assecondando l’umore e le convinzioni dell’interlocutore non è un mentire, ma accendere una speranza di ciò che sarà o potrà avvenire. Il “vicino” nel mondo palestinese è davvero un tesoro umanamente prezioso, dove la prossimità fa rima con complicità e condivisione, in cui un appoggio precario diviene un tavolo Luigi XVI. L’essere arabo palestinese, cristiano o musulmano, significa infatti avere radici e avi che risalgono indietro di centinaia di generazioni, mentre essere “ebreo” ha a che vedere esclusivamente con un credo religioso e, quindi, possiede un’estensione interetnica, interlinguistica e multiculturale che va nel senso esattamente opposto a quello di una comunità chiusa e tradizionale.

 (*) Trailer ufficiale

 

Aggiornato il 09 aprile 2018 alle ore 18:53