Giorgio de Chirico, il pittore metafisico

Nel mio recente libro, Ho vissuto la vita, Ho vissuto la morte (Armando Editore), rievoco i miei incontri, amicizie, conoscenze, con gli intellettuali, con gli artisti dell’epoca, anni Sessanta-Settanta e oltre. Tra costoro è inevitabile Giorgio de Chirico. Quando in Francia la pittura innovò le sue forme mediante l’impressionismo una antichissima tradizione veniva spazzata ed era la tradizione delle immagini piene solide non penetrabili dalla luce semmai illuminate ma non dissolte dalla luce, ripeto. Con l’impressionismo avviene un fenomeno assolutamente innovativo quale percezione della realtà oggettiva, è come se la luce penetrasse nella solidità delle cose dissolvendole, polverizzandole, facendone comunque parte, sicché i quadri impressionisti più estremi quelli ad esempio di Monet sono una mescolanza di luce e di “cose” e le “cose” perdono spessore, solidità, accennavo, consistenza. Anche altri pittori che non giungono agli estremismi di Monet tuttavia non raffigurano la realtà nel modo corpulento del passato, con le figure ben circoscritte. Adesso sono verosimili ma quasi abbozzate o deformate o in ogni caso alterando quella pienezza accurata che era tradizionale della pittura.

Se dovessimo usare un termine caro a Giorgio de Chirico potremmo dire che la pittura non è più una costruzione, una struttura, ma quasi un abbozzo, ripeto, un accenno se non un pulviscolo di luce e di materia colorata. Certo bisognerebbe poi distinguere un Manet, un Degas, un Cezanne da un Pizarro, un Seurat o un Monet, il quale, ho detto, giunse all’estremismo della pulviscolarità della materia che diventa luce e colore. Quel che ho scritto coglie approssimativamente l’effetto che l’impressionismo ebbe nella pittura, il modo in cui l’impressionismo manifestò la pittura, questa perdita di figurazione tradizionale che giunse alla perdita della figura vera e propria, negli sperimentalismi successivi all’impressionismo arrivano alla perdita della centralità umana, per così dire dell’uomo come soggetto oggetto della pittura, e delle case, delle strade, delle campagne, dei mari, dei cieli o una deformazione radicale delle realtà, si tratti di cubismo o di futurismo, la realtà o viene geometrizzata o viene insieme geometrizzata e frantumata fino poi a giungere con l’astrattismo, l’informale e via discorrendo all’abolizione della realtà visiva corrente.

Tutto questo serve, anzi è necessario, per comprendere un artista greco e italiano o, se vogliamo, due artisti fratelli, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Giorgio de Chirico assai più celebre del fratello che però in certe opere non gli è per nulla inferiore, nacque in Grecia nel 1888 e morì a Roma nel 1978. È una delle pochissime figure che passò indenne dall’epoca prefascista all’epoca fascista all’epoca postfascista e in qualche modo comunista, senza subire particolari ostracismi, forse l’unico artista che nel Dopoguerra italiano famigerato per l’accanimento ideologico contro i “reazionari” non ne patì l’avversione fino a esserne derelitto e dico questo oltre che per conoscenza, per esperienza. Mai dimenticherò la sorte del povero Leoncillo Leonardi, che nomino spesso. Uno scultore in certo qual modo informale preso di mira dai presunti “realisti” di ideologia comunista fino a essere condotto alla fame e non dico in termini figurativi, oltre che ad una solitudine disperante. De Chirico era tutt’altra persona e personalità, è uno dei pochi artisti che, almeno per un certo periodo, faccio una limitazione, in realtà per tutta la vita, fu se stesso. Imbevuto di cultura classica tuttavia comprese che ormai la cultura classica poteva esistere in senso ironico e non temporale, in una eternità fredda, vuota, al di là del presente, una classicità astratta. E, ripeto, ironica.

Mentre la pittura successiva all’impressionismo si accaniva a deformare le immagini geometrizzandole con il cubismo o deformandole in modo coloristico geometrico con il futurismo quasi che l’epoca presente fosse troppo veloce dinamica per accettare la figura statica come nel passato e invece bisognava adeguarla alla velocità, o annullarla quasi avesse, specie l’essere umano, esaurito la sua rilevanza, de Chirico compie un’operazione del tutto opposta, rende ferma immobile, immobilizzata la realtà degli oggetti, delle presenze svuotando intorno a esse tutto ciò che di umano possa esistere. È il de Chirico celeberrimo delle piazze d’Italia dove in uno sfondo assolutamente vuoto si colloca una piazza assolutamente vuota di persone o un monumento con intorno il vuoto o una costruzione nel vuoto. Manca deliberatamente in de Chirico la figura umana almeno per un certo periodo, quello che poi verrà chiamato metafisico, de Chirico non sforma la figura umana, la elimina, non spezza, non velocizza, immobilizza il vuoto, e vi staglia presenze assurde, irriferite.

Siamo nella Prima decade del secolo scorso, l’impressione dell’osservatore è, appunto, quella del vuoto, le cose esistono al di fuori dell’umanità, esistono soltanto le cose, ma non esiste l’uomo, l’effetto di questa pittura è sentito ancora oggi, de Chirico esprime la crisi dell’uomo, o come la si voglia dire, che imperversò in quegli anni in maniera diversa da tutti gli altri pittori, non deformando l’uomo ma assentandolo, facendolo scomparire, chi guardava o guarda i quadri di de Chirico è preso da questa vertigine di assenza, di perdita di uomo, di umanità. Quadri ormai giustamente classici dell’epoca moderna, con sapiente costruzione geometrica dei palazzi, delle piazze, delle stele e dei vuoti. De Chirico edifica una monumentalità al niente con apparente distacco e freddezza. Una eternità a vuoto. È, torno a dire, il periodo aureo della sua attività. De Chirico è personalità internazionale, dalla Grecia ha vissuto a Parigi in contatto con Apollinaire. Quindi giunge in Italia. È uomo colto, è un buon scrittore, è anche un eccellente teorico della sua arte. Insisto, de Chirico sente la classicità. Se nei quadri delle piazze o dei monumenti la recupera fuori dalla storia come un’astrazione eterna e priva di presenze umane è perché comprende che la classicità è impossibile nel mondo moderno, per questo la rappresenta non solo nel vuoto di cui ho detto, come una presenza a vuoto, ma pure come una presenza ironica autodissolutiva.

È l’invenzione dei manichini. Gli eroi dell’antica Grecia li espone in forma di manichini, figure in legno che si abbracciano, Ettore e Andromaca, o vengono rappresentati nella loro perdita di immagine realistica, eroi ridotti a manichino ma non degradati. È il punto fondamentale per capire de Chirico. Mentre la modernità degrada, de Chirico ironizza nostalgicamente. Sa che la classicità è impossibile ma non la vuole offendere, sporcare. I manichini conservano qualcosa di una dignità perduta oggi impossibile ma non sono umiliati. Successivamente de Chirico, per reagire suppongo al gusto del deforme e ripeto della degradazione addirittura, si espresse nel cosiddetto periodo barocco con cavalli dalle chiome furenti, montagne che sembrano coperte di erbe rigogliose, giovanetti in forma classica o addirittura suoi autoritratti assai paludati tra il divertito e il celebrativo. De Chirico fu il solo pittore che non cercò nella deformità e nella bruttezza di esprimere la modernità ma di salvare pure se con ironica nostalgia, ripeto, il mondo classico, perduto e resuscitato a quel modo: rimpianto e ironia.

Mi invitò a casa sua, a Piazza di Spagna. Una casa con suoi quadri e sue sculture. Le sculture erano il rifacimento in ottone o bronzo, suppongo, dei manichini di cui ho scritto, levigatissimi, puliti, splendenti, volti senza tratti, naso, bocca, occhi, sembravano corazze cieche, davano anche in quella forma un che di eroico, di forte, di chiuso al presente; mi colpì una tela del tutto figurativa di Venezia, quattro gondole che si muovevano da lati opposti rendendo visibile l’allontanamento dal centro, un’espressione di dinamismo e di movimento che rendeva la partenza quasi si staccassero a fatica, poi un suo Gesù Cristo, e soprattutto illustrazioni della Bibbia con disegni minuziosi, accennati, fluentissimi, tutta la casa era una sorta di abitazione principesca. In tempi di impegno verso il popolo de Chirico non si curava minimamente di vivere da ricco e da gran signore del Rinascimento, come si dice di solito, questa era la sua peculiarità, ho detto, fu sempre se stesso.

La sua figura: era molto alto, con una pelle bianchissima e marmorea, un naso eminente, degli occhi scurissimi e grandi, i capelli candidi in maniera stravagante, direi un bianco latteo, una ciocca gli fiaccava continuamente sulla fronte ed egli con una mano immensa se la spostava, aveva la bocca imbronciata, e il mento alquanto rientrato, parlava pochissimo e ascoltava con aria assorta e distratta, litigava perpetuamente con la moglie, anzi era la moglie a litigare con lui, lo rimproverava di tutto. De Chirico fingeva di non ascoltare, alto il doppio della moglie, come se le parole della moglie non gli giungessero alle orecchie, ma suppongo che se ne infastidisse. Una volta, però, scocciatissimo, si portò il dito indice alla bocca, verticalmente, e sibilò un “zitta” che la moglie non considerò.

Un ricordo. Dopo la visita nella sua casa scrissi un lungo articolo sulla sua pittura e su di lui in una rivista, passeggiando per Via Veneto con la rivista in mano, appena uscita, mi pare, lo incontrai al Café de Paris, stava imbottendosi di cornetti e pastarelle, ne aveva le dita stracolme, sicché quando mi doveva stringere la mano se le girò entrambe dietro le spalle per dare passaggio ai cornetti e pongermene una, di mano, causando il crollo dei cornetti e afferrandomi una mano chiazzata di zucchero polverizzato. Era un gran bambino, alquanto compiaciuto di se stesso, aveva visto la realtà da un altro punto di vista, il punto di vista del mito, degli eroi, dell’eternità, aveva in mente la classicità vivendo nell’epoca degli eventi immediati, del perire frettoloso, del morire all’apparire. Ne venne, continuo a dire, nostalgia e ironia. Quando ci incontravamo a cena, stava a capotavola, circondato da belle ragazze che gli facevano corona. Infiorandolo di giovinezza. Se ne stava imbronciato, felice e assorto, gli occhi larghissimi, due tazzine di caffè, sognanti costituzionalmente, sotto la fronte di una freschezza da neonato. Una sera, da Elsa De Giorgi, Rafael Alberti o Carlo Levi, non ricordo, dissero qualcosa di ridevolissimo. De Chirico non mosse ciglio e labbra. Poi iniziò un borbottio gonfiandosi e sgonfiandosi, senza aprire bocca o brillio di occhi. Ma sorrideva, anzi: rideva. Dechirichianamente.

Aggiornato il 19 aprile 2023 alle ore 16:50