Analfacrazia

In principio ci furono le regole. La maggior parte noiose, inutili, fabbricate su misura per qualcuno, create da studiosi, ma anche da furbi, politicanti, buontemponi, criminali, nostalgici, pervertiti, giocherelloni, sottosviluppati e affetti da altre miserie umane. Ma qualche regola servirebbe pure. Ad esempio, per capirsi, parlare una lingua vagamente omogenea, risparmiare tempo evitando di ripetere locuzioni già espresse. La precisione della lingua non è solo piacere estetico, serve anche a evitare equivoci talvolta pericolosi. Fatalmente il linguaggio si evolve e pure si involve. Muta con il tempo, come l’abbigliamento delle donne che devono scendere dagli scooter e non più da carrozze dorate. Ma nessuno aveva finora avvertito la necessità di rimodernare grammatica e sintassi per adeguare il pubblico eloquio al millennio dell’intelligenza appaltata.

Improvvisamente Rai Radiodue intervista allegramente una linguista di chiara fama targata Treccani e le chiede di analizzare un testo di strettissima attualità, quello della canzone che ha vinto il Festival di Sanremo. La tenera Angelina canta “a me mi viene la noia” e la studiosa legge con tono benevolo, vagamente ammiccante, questo errore grammaticale che ha intenzione di perdonare, e forse addirittura apprezzare. In studio le chiedono se si possa dunque usare nel linguaggio corrente una simile spiritosaggine da matita blu, e l’illuminata concede, con voce soddisfatta, un’apertura che potrebbe preludere a scenari futuri sconvolgenti.

Dunque, “a me mi” è ufficiale, l’ha sentenziato la linguista Treccani. Ma lei, chi è? E, a parte la voglia matta di fare notizia con un banale pronome, chi le ha conferito l’autorità di cambiare regole della lingua italiana, modificando pubblicazioni e persino testi scolastici? Tanta demagogia grammaticale qualche sospetto lo evoca: Giovanni Treccani e Giovanni Gentile, quasi un secolo fa, non avrebbero mai immaginato che il prestigio della loro opera colossale avrebbe generato un sistema che mette in discussione le fondamenta del mondo intero, a cominciare da “a me mi”.

Trentacinque volumi più aggiornamenti sono stati il più sicuro punto di riferimento, oltre ad essere un oggetto d’arredo, troppo spesso falso testimone di una cultura mai sfogliata. Ora diventano un pilastro che permette di far politica o almeno tendenza, prendendo posizioni come quella di diffondere il linguaggio gender, avallando, di fatto, un argomento al centro di vivaci polemiche. Il mondo social, popolato da analfabeti onniscienti, è probabile che metterà in discussione tutto quello che i sapientoni online ignorano, bollandolo come forma che impedisce l’espressione della sostanza. E per far questo userà sponsor monumentali e intoccabili, gli unici ai quali non si ha il coraggio di contestare l’ammissione di un “mi” aggiunto a un “a me”.

Questo servirà a liberare le masse dai vincoli grammaticali e sintattici, che verranno retrocessi al grado di opzioni superate, e a promuovere a cultura di serie A qualunque boutade da bar. Chi insisterà nell’esprimersi come maestra elementare gli ha insegnato sarà oggetto di emarginazione, sarà un antisòcial. E dovrà esprimere le sue frasi impeccabili al riparo dalle Alexa, Facebook e TikTok: quelli ti ascoltano, giorno e notte.

Un consiglio: spara uno strafalcione ogni tanto, è per il tuo bene.

Aggiornato il 16 febbraio 2024 alle ore 11:51