“L’origine del mondo”: un’indagine perturbante

Come origina e si comporta il mondo, per un depresso cronico? Per esempio rivestendo i panni di un ente inanimato, come il frigorifero che, aperto, rimane la sola sorgente di luce, per distinguere sul palcoscenico vuoto soltanto la figura di colei che cerca con disperata calma qualcosa di commestibile tra le sue fredde viscere di plastica corrugata. O battendo metaforicamente il capo nelle quattro pareti domestiche, a causa del girovagare cieco attorno alla propria inconsistenza, mentre l’ombra di colei che è stata indossa perennemente une robe de soir (vestito da notte), di certo molto elegante, vista l’estrazione indubbia alto borghese. O, infine, nell’approdo malfermo del depresso sulla poltrona di una logorroica analista. Difficile decifrare il “peggio” tra tutte queste situazioni, così come ce le propone lo spettacolo L’origine del mondo, ritratto di un interno, che va in scena fino al 28 marzo al Teatro Argentina, scritto e diretto da Lucia Calamaro, con Concita De Gregorio nel ruolo di “Concita”, Alice Redini nelle vesti di “Alice”, figlia di Concita e al tempo psicanalista della stessa e, infine un’esuberante e bravissima Lucia Mascino, giovanissima e assai improbabile “madre” di Concita e “nonna”, ovviamente, di Alice. Ecco, tre (quattro con Lucia Calamaro fuori scena) donne che, essendo le artefici del fatto, dell’antefatto e della conclusione non possono appellarsi per nessun motivo al bieco patriarcato per giustificare i propri guai. Anzi, qui il maschio è ab origine segato dal tronco degli affetti familiari come un ramo secco, che non può offrire riparo, rifugio e affetto a moglie e figlia.

Né Concita, né nonna Lucia lasciano lungo la loro scia logorroica un solo sbuffo di affetto per i loro rispettivi maschi (che debbono pur esserci stati, anche se uno solo, il “padre” di Alice, ha diritto a brevissimi, distratti cenni nel fiume di parole tripartite), come se loro stesse fossero nate per partenogenesi. Allora, veniamo a questo dramma-farsa, coniugato e vissuto interamente al femminile. Che vuole Concita, divertentissima depressa, quando per buoni cinquanta minuti parla a un frigo aperto enumerando le infinite cose in esso contenute che, guarda caso, o sono andate a male con tanto di muffa; o sbocconcellate da qualche topo di casa. Oppure, di fatto inappetibili perché lì ce le ha messe “qualcun altro”, si direbbe ospite fisso del posto. E che ci fa una figlia che imbastisce dialoghi sempre un po’ allucinogeni con una madre che non la sta a sentire? Con Concita che si lascia cullare da chi dovrebbe essere “badata” da lei come madre, abbandonandosi al proprio vuoto interiore. Come i grandi depressi, Concita spera di essere sostenuta dal quel suo nulla, che la trascina dalla cucina al letto, perché di essere nulla ci si stanca presto e si fa molta fatica a tenere il senso della vita. Allora, ci si chiede, che cos’è che fa così tanto male a Concita, così colta al punto da conoscere troppa filosofia inutile, in cui per interi volumi si fa un lungo sproloquio sui caratteri e sulla costruzione della personalità? Come mai, dopo una carriera brillante e grandi soddisfazioni personali, con una bella casa e un marito che non dà noie, ci si riduce a scambiare i ruoli tra madre e figlia, perché si è perduta la capacità di accudire?

Allora, giustamente, ecco irrompere letteralmente sulla scena nonna Lucia, una specie di carro armato in tailleur, bella e talmente energica da sollevare con la sua ironia e la sua foga verbale almeno una decina di depressi, occupandosi dei fatti della figlia e della nipote, nel continuo tentativo di scuotere e di mettere ordine nella vita di Concita, sistemandole la casa sempre un po’ troppo trascurata. Solo che, come sappiamo bene un po’ tutti, l’ordine di un altro è disordine per noi, perché “personalizziamo” i posti dove tenere (o dimenticare) le cose e, se vengono spostate da altri, perdiamo le coordinate e andiamo fuori di testa, seminando il massimo disordine per trovare ciò che cerchiamo (è così anche con l’anima!). Che, poi, a ritrovarle la testa e l’anima, una volta che l’hai smarrite, ci vorrebbe un’altra vita. E tu ci provi, come fa Concita, affidandoti alla strizzacervelli mercenaria che oppone la sua profonda isteria alla tua depressione, così per non farsi contagiare, perché in fondo se lo facesse, se lasciasse veramente parlare quella sua paziente tanto introversa, allora dovrebbe sopportare il peso del transfert. Mentre invece è meglio, molto meglio, farsi pagare per ascoltare se stessi, mentre si ripete al paziente la lezioncina freudiana che si è appena riletta. Ma, allora, dov’è la via di fuga? Finalmente ridiventare coppia, con una figlia che ha scelto di seguire la sua strada, lasciando soli, “finalmente”, madre e padre perché lei, la moglie, riscopra i piaceri della cucina e dei piatti da lavare anche da pensionata di lusso! Spettacolo decisamente troppo lungo, e troppi dialoghi si fanno dimenticare troppo presto, malgrado i loro ricchissimi spunti ironici e situazionali.

Aggiornato il 26 marzo 2024 alle ore 16:44