“Un mondo a parte”: il mal di montagna

“Tutti perdenti, tutti contenti”; la “Montagna lo fa”, questo e altro! Quelle citate sono due grandi battute tratte dal coinvolgente film di Riccardo Milani (nelle sale italiane da domani) Un mondo a parte, che narra delle vicende e della vita di un piccolo paese del Parco nazionale d’Abruzzo, che poi è il vero dio immanente della storia, con i suoi uomini, donne, vecchi e bambini e, soprattutto, con i suoi paesaggi da trattenere il respiro, popolati da animali selvaggi, come lupi, orsi, aquile e uccelli. Protagonisti principali nature sono molti e bravi attori di strada, reclutati per lo più nel piccolo condominio popolare di Pescasseroli, come Nicola, lo straordinario bidello tuttofare, ai quali fanno da maestri del coro due impagabili attori professionisti, come Antonio Albanese, nella parte del maestro Michele, e Virginia Raffaele, nel ruolo di Agnese, vicepreside di una piccola scuola elementare, in via di definitiva chiusura per mancanza di alunni. Alla più nota contrapposizione città-campagna, l’esperta regia dei luoghi e delle genti da parte di Riccardo Milani contrappone il vero dramma tra i centri di pianura, da un lato, che fanno conurbazione con le grandi realtà urbane, cattive e congestionate, e i piccoli paesi di montagna, dall’altro, sempre più impoveriti e decadenti.

Borghi nati nella e dalla roccia, questi ultimi, progressivamente in via di estinzione, per la mancanza di un’economia di sussistenza, e per il continuo diradarsi dei poli di aggregazione, come la biblioteca, il cinema, la parrocchia, i luoghi di ritrovo per gli anziani e, soprattutto, la scuola. Accade così che a mantenere sentieri, boschi, pascoli e campi da coltivare non vi siano più né contadini, né boscaioli, né gente del posto. Perché la loro linfa intergenerazionale si prosciuga e inaridisce, e di conseguenza la conservazione delle bellezze paesaggistiche, impagabili e inestimabili, viene affidata a una popolazione autoctona sempre più scarsa, rassegnata e disillusa, il cui grande difetto è il non aver mai imparato che uniti si vince e che occorre apprezzare chi fa meglio e ha successo nelle sue iniziative. Michele, il maestro frustrato, insegna in una scuola della periferia romana dove i genitori dei piccoli lazzaroni impunibili picchiano gli insegnanti, che osano rimproverare i loro figli maleducati, svogliati e irrequieti, sempre con il telefonino in classe a farsi gioco e scherno dei loro impotenti tutori. Ed è così che Michele, innamorato platonico di una natura che in città ha lasciato il posto al duro cemento sia negli spazi urbani alienanti, che nei cuori e nelle menti dei suoi anonimi abitanti, va alla ricerca del paradiso perduto, vedendosi destinatario di una assegnazione provvisoria semestrale all’Istituto Cesidio Gentile detto Jurico, il pastore-poeta, dove sopravvive a stento una sola pluriclasse, I A, III A e V A, di bambini la cui età va da 7 a 10 anni. Da subito, l’Eden si trasforma in un inferno di neve e ghiaccio per il povero Michele, intrappolato da più di un metro di neve nella sua vecchia autovettura, senza catene né efficienti gomme invernali per arrivare a destinazione, sorvegliato a distanza da un branco di bellissimi lupi. Ed è lì che, per sua fortuna, si appalesa la figura di un’energica vicepreside, Agnese, esperta nel recupero di insegnanti sprovveduti, mandati dalle autorità cittadine per coprire pro tempore le cattedre vacanti. Ora, non c’è nulla di più divertente e patetico nel vedere un pacifico cittadino, con mocassini e giacca leggera da città, dover affrontare una vita a meno dieci gradi, con una stufa a legna che non vuol sapere di accendersi e la neve che si accumula sulla soglia di una casa spartana, posta in cima a una sdrucciolevole salita.

Perché una metafora della montagna è proprio quella del salire e del discendere senza rotolare su se stessi, imparando di nuovo a camminare, come un bimbo ai suoi primi passi. Ma se da bambini la montagna innevata sembra un racconto di fate, dopo i quindici anni, quando la scuola superiore più vicina è a cinquanta chilometri di distanza e in paese non c’è nulla da fare, mentre le giornate calde e fredde si allineano tutte uguali senza una speranza di futuro, allora non viene più voglia di restare ma di fuggire lontano, per realizzare i propri sogni e darsi una speranza di riscatto. Con qualche rarissima eccezione di adolescenti che vogliono continuare il difficile mestiere di coltivare la terra, dove sono nati e intendono restare. Senza un minimo di reddito che passa l’Amministrazione locale e regionale, come uno stipendio da bidello, da segretaria tuttofare e da insegnante, rimangono i carabinieri, il parroco (tutti e due a tempo parziale, perché la stazione dell’Arma è in un altro posto, come la sede parrocchiale ancora aperta) e il sindaco.

Ma sono proprio queste micro-istituzioni con le quali bisognerà fare i conti e trovare le sinergie giuste, nell’ottica dell’anno scolastico a venire da salvare, per ricostituire molto avventurosamente (e decisamente facendo spallucce al politicamente corretto) il numero minimo di allievi della pluriclasse, senza soddisfare il quale si dovrà chiudere la scuola. E il raggiungimento di questo “numero” fatidico è la chiave di volta del film, che vede tra parentesi una commovente storia d’amore tra i protagonisti. Per vincere, Michele e Agnese dovranno superare prove di egoismo locale (tipo: “Mors tua, vita mea”) e attingere alla vita giovane che viene da lontano, dai profughi economici, come da quelli che fuggono dalla guerra. I bambini, da qualunque parte del mondo provengano, hanno sempre moltissimo da insegnare ai grandi, come gli ometti e le donnine di montagna, che sanno accendere il fuoco della stufa, preparare un pranzo, assistere i fratelli più piccoli, riconoscere il verso degli uccelli, e magari hakerare un sito del Ministero per fare giustizia di un imbroglione di preside, che vuole chiudere la loro piccola scuola per i propri loschi affari di bottega. Un mondo a parte, appunto!

Aggiornato il 27 marzo 2024 alle ore 13:45