#Albait. La giornata dell’acqua in una goccia

Grazie al Pnrr sono previsti 2 miliardi e seicentocinquanta milioni nel settore idrico. La somma è raddoppiata rispetto alle somme disponibili nel 2018, quando i miliardi di investimento erano uno e duecentottantamilioni.

Secondo le stime di Utilitalia, l’associazione delle imprese delle utilities, tra il 2018 e il 2023 sono stati previsti quasi dodici miliardi di opere, anche se è solo dal 2020 se ne sommano nove. La spinta per questi investimenti arriva dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza a cui il nostro Paese guarda ormai da oltre un anno, con molte difficoltà. Ma le somme previste nella così chiamata missione M2, “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, nella Componente C4, “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, con diverse linee di investimento, riserva molto meno, per il settore idrico in senso stretto: poco meno di quattro miliardi e mezzo.

Di questi, due miliardi di euro servono a finanziare centoventiquattro progetti per i tubi e le vasche, diciamo così. Altri novecento milioni sono dedicati per ridurre le perdite e, ancora una volta, alla digitalizzazione delle reti, per un totale di appena trentatré progetti, come i trentini che andarono a Trento. Per la depurazione, del sistema fognario, che per legge in Italia è legata a doppio filo con il consumo di acqua, ci sono appena seicento milioni per tutta l’Italia, per finanziare appena centosettantasei progetti.

Una breve consultazione al sito di Utilitalia però porta a quarantotto i miliardi richiesti da investire nell’acqua potabile. Per logica, almeno altrettanti occorrono per la depurazione, anche se non sta scritto da nessuna parte. Parliamo dell’intero programma di investimenti del Pnrr.

In realtà, quindi, i soldi sono pochi e tra poco vedremo che difficilmente potranno essere spesi. Nemmeno a dirlo, gli investimenti previsti al nord e al centro sono fino al doppio di quelli nel sud, dove la quota di investimenti su reti idriche colabrodo, risulta essere di appena trentadue euro a testa.

Dicevamo che difficilmente quel denaro sarà speso. In effetti, lo stato di avanzamento lavori dovrebbe essere del 55 per cento entro giugno. Il cronoprogramma vede invece opere realizzate per il 12,5 per cento, oggi.

Il ministro Matteo Salvini ha probabilmente le idee chiare e, forse scavalcando il collega Gilberto Pichetto Fratin, ha chiesto alle Regioni di comunicare al Ministero delle Infrastrutture le opere richieste. Risultato: cinquecentosessantadue proposte per tredici miliardi e mezzo di euro. Anche al Ministero sanno quindi che nel settore idrico la situazione è semplice: bisogno estremo di investimenti, scarsa capacità di realizzarli, pochi soldi di investimenti programmati, perdite fisse al 42 per cento della capacità di produzione idrica, poca, quasi zero capacità di depurazione delle acque, una miriade di procedure di infrazione, specie al sud.

Si può serenamente parlare di una Caporetto della programmazione e fallimento della gran parte delle Regioni nel monitorare persino la propria incapacità di captare investimenti. In una città importante del sud, addirittura, le somme disponibili per la depurazione ammontano appena a venti milioni. L’unico appalto aperto è però quello della progettazione di massima, per una somma di seicentomila euro. Un esperto di spesa per investimenti infrastrutturali stima che, se questo è lo step di oggi, quell’opera vedrà la luce, se tutto va bene, tra dieci anni. Fuori tempo massimo per poter essere rendicontata nel Pnrr.

La cosa che più impressiona è che anche in questo settore, vitale per tutti, c’è una smania privatizzatrice. Non liberalizzatrice, ma privatizzatrice. Le bollette dell’acqua oggi sono in buona parte equivalenti a bollettini tributari. Il potere di riscossione è sconfinato. Non solo, la componente di consumo di acqua è sovraccaricata da un uguale importo per depurazioni che non vengono fatte. In tutto questo, i gestori delle reti di distribuzione delle acque non si impegnano, alla presa in carico delle reti idriche, a interventi di manutenzione straordinaria, né a nuovi investimenti.

Al solito, parliamo di settori dove il privato chiede soldi pubblici per gli investimenti e poteri equivalenti a quelli pubblici per la riscossione. Posto che basta tagliare la fornitura di acqua per rendere inabitabile qualsiasi casa. In cambio, per questa inefficienza, gli acquedotti incassano con certezza una montagna di soldi. In qualche caso, le società non si impegnano nemmeno nella riscossione, considerato che esistono fondi di solidarietà, finanziati dai consumatori sempre attraverso le bollette, che pagano gli importi insoluti, con sollievo per la società e nessun beneficio per i consumatori che pagano regolarmente.

L’acqua, se usciamo fuori dalla retorica, è l’ennesimo settore nel quale la nostra capacità di restare un Paese altamente industrializzato è messa a dura prova. Non mancano le intelligenze, manca la voglia o l’efficienza nel fare. Si dice che la perseveranza è quella scandita dalle gocce che scavano le rocce. Noi assomigliamo di più alle stalattiti che crescono grazie all’accumulo di calcare depositato dalle gocce, nelle grotte o nelle docce che si intasano. Il ministro Matteo Salvini, al di là della vis retorica non sempre condivisibile, si vuole impegnare molto sul piano degli investimenti. È una buona notizia. Il punto è che gli investimenti non basta che siano programmati, devono essere realizzati.

Le Regioni da questo punto di vista dimostrano di non essere capaci. I dati delle performance degli organi di governo intermedio tra comuni e Stato sono sconfortanti. Ancora peggiore, se questa è la realtà il giudizio sulle imprese delle utilities: incassano, spiegano che servono investimenti, ma gli investimenti non si fanno. Di chi sia la responsabilità, non ci compete dirlo. Noi possiamo solo descrivere e constatare i fatti.

I nostri manager pubblici sembrano incapaci di programmare, poco capaci di portare a casa le opere complete, spesso affannati a spendere denaro per attività di supporto ai grandi investimenti come la comunicazione. Risultato: poche opere e tanta comunicazione. In attesa di subire anche per questo l’ennesima procedura di infrazione. Anzi, qualcuna è stata già avviata. Una goccia, certo. Ma la goccia comunitaria scava, quella nazionale sedimenta. E l’obiettivo acque pulite, compresi laghi e mari, per il 2030 non sembra proprio alla nostra portata. Noi dovremmo essere un Paese a vocazione turistica, dicono. Con qualche ragione. E molta noncuranza.

Aggiornato il 21 marzo 2024 alle ore 10:24