#Albait: l’Italia, l’acciaio, l’epistassi (sangue dal naso)

Acciaio e industria vanno di pari passo. Isaac Asimov, quando scriveva di un futuro lontanissimo, immaginava una terra senza quasi più verde. I palazzi giganteschi sarebbero di plastacciaio. La guerra terroristica di Vladimir Putin contro l’Ucraina, rende evidente che la produzione di acciaio è un fattore strategico di crescita e di difesa. Tra le grandi difficoltà dei russi, la carenza di acciai speciali e di cuscinetti a sfera, oltre che di tecnologia. Da qui, la difficoltà a rimpiazzare le armi che hanno perso nel conflitto. Nell’Italia unitaria dell’800, la preoccupazione massima di tutto il gruppo dirigente era l’acciaio. L’Italia arrivò a produrre acciaio pari alle quantità ottocentesche del Regno Unito, solo con l’entrata in funzione dell’Ilva di Taranto, sia pure azzoppata, per non creare problemi agli altri poli siderurgici, come Bagnoli, Piombino, Novi Ligure, Terni, Marghera e le tante piccole realtà cosiddette bresciane.

In un Paese ingessato come l’Italia, l’acciaio ha sempre visto l’intervento dello Stato. Le condanne ai Riva e le attuali renitenze di Arcelor a rilanciare il polo siderurgico, ed anzi a dare l’idea di volerne la chiusura, confermano che lo Stato italiano deve farsi sentire. Mentre Taranto viene trattato come un problema, Terni, concentrata nella produzione di acciai speciali, è passata di mano tre volte. Dall’Ilva a ThyssenKrupp, poi la cessione agli olandesi, infine il ritorno della proprietà in Italia, nelle mani del gruppo Arvedi, con una produzione venduta – e bene – in tutto il mondo. Anche Taranto ha prodotto profitti enormi per i Riva. La magistratura ha però descritto l’assenza di investimenti che hanno portato ai danni ambientali. I processi hanno obbligato lo Stato italiano a smettere di fingersi morto e a investire miliardi. Scelte poco strategiche portarono nel 2017 la proprietà in mani francesi. Nel 2021 lo Stato è rientrato in minoranza robusta e con solito esborso di denaro, attraverso Invitalia. Ora servono altri miliardi che il socio di maggioranza francese non mette. Eppure, Taranto produce denaro e acciaio. Con gli opportuni investimenti, la città conoscerà anche un’importante evoluzione portuale, paragonabile a quella delle grandi infrastrutture marittime del lontano Est.

Le renitenze di Arcelor sono contrarie al nostro interesse italiano. Le innovazioni in questo settore necessitano di grandi economie di scala. Noi abbiamo bisogno dell’ex Ilva, anche per riavviare studio e innovazione, dopo le tante vendite di brevetti degli anni passati. L’impianto di Taranto è a ciclo continuo. Produce vantaggi se si parte dal minerale e si arriva al prodotto finito. Questa modalità produttiva presuppone relazioni internazionali stabili e importanti. Offre un ruolo all’Italia. Una formazione politica minima, per i tempi attuali, quella di Socialdemocrazia-Sd, ha recentemente fatto una proposta per Taranto, in vista dell’assemblea dei soci, il prossimo 22 dicembre: mettere i francesi alle strette, realizzare la linea di preridotto di ferro, aggiungere una linea per gli acciai speciali. Se i francesi non ci stanno, vadano via. D’altronde, anche il risanamento ambientale senza l’acciaieria attiva, non si farà.

Qui non siamo statalisti. Per quanto possa non piacere, in questo caso dobbiamo affidarci allo schema delle Partecipazioni statali. Il futuro industriale italiano dipende anche da Taranto. Le conseguenze internazionali della scelta industriale sono rilevanti. Anche se i grandi investimenti della disinformazione russa minacciano guerra anche all’Italia, proprio l’interesse economico futuro può aiutare la fine del conflitto e la sterilizzazione delle mire russe sul mar Nero, il Mediterraneo centrale e l’Adriatico. La Russia dovrà essere ricostruita, dopo le scelleratezze di questi due anni, non solo l’Ucraina. Il futuro nella siderurgia avanzata può aiutare. Con l’ex Ilva attiva ed efficiente, avremo ottimi motivi per il nostro rilancio internazionale. Le politiche migratorie, in presenza di massicci investimenti, saranno concrete. L’emorragia di capitale umano dall’Africa, si ridurrà. Anche la nostra emorragia di ragazzi verso l’estero si ridurrà. Daremo loro modo di lavorare in settori vantaggiosi e strategici. A meno che, qualcuno, a cominciare dai francesi, non pensi di azzopparci definitivamente per epistassi, grazie all’ennesimo pugno sul naso dato all’Italia, grazie alla sempiterna collaborazione di qualche miserabile italiano di turno. Ma noi siamo meglio di così, giusto? Testa alta e ghiaccio sulla fronte, possiamo rilanciare la ex Ilva.

Aggiornato il 14 dicembre 2023 alle ore 12:11