Cgil e terrorismo: non  basta tornare in strada

Mohamed Lahouaiej Bouhlel affitta un Tir, aspetta le celebrazioni per la Presa della Bastiglia del 14 luglio, forza un blocco e, a mente fredda e a zig-zag, decide di falciare più persone possibili, correndo all’impazzata, a novanta all’ora, lungo la Promenade des Anglais. C’è qualche dubbio sulla matrice islamista di un attentato che fa, in questo modo, ottantaquattro morti e più di duecento feriti? Non frequentava moschee, si dice, non era devoto. Beveva alcoolici. Non rispettava le regole del Ramadan. È possibile, azzarda qualcuno maldestramente, che tutto sia spiegabile, ancora una volta, con il disagio delle banlieue, la crisi familiare e lavorativa, le difficoltà economiche, lo stato depressivo esistenziale. Continuando di questo passo, rifiutando cioè di considerare il cosiddetto “islamismo” (che non è l’Islam) come un fenomeno politico, oltre che religioso, continueremo a non capire il senso di un terrorismo che, pur se ai margini dell’Islam, con modalità diverse e varianti macroscopiche resta limpido nei suoi distorti presupposti ideologici.

Se si prospetta al lucido-folle attentatore di Nizza la certezza di una seconda vita di beatitudini, subordinata alla sua capacità di annientare il maggior numero possibile di vite umane occidentali (infedeli), l’equazione poi è perfetta. Mohamed Lahouaiej Bouhlel risolve, in modo “eroico”, non semplicemente meschino, i suoi problemi esistenziali di uomo malato, iscrivendosi, allo stesso tempo, nella schiera dei martiri che redimono la comunità dei musulmani.

Sorprendentemente, anche ai vertici del governo francese si sono manifestati dubbi e sono state fatte distinzioni sulla matrice dell’attentato. Mancava il sigillo della rivendicazione. Ma cosa c’entra la rivendicazione? C’è ancora qualcuno che non sa che Isis o Al Qaeda, come qualsiasi altro movimento del radicalismo islamico, sono e saranno sigle accidentali, simboliche, cambianti, del wahhabismo, che auspica - utopicamente - la costruzione della Umma islamica universale?

In questa utopica “comunità” non servono ordini e gerarchie. Gli ordini sono immanenti. Non è necessario l’arruolamento o l’affiliazione. Non conta la fraternità politica, perché la comunità dei credenti è immanente. Conta solo l’identificazione. Ci può essere un Califfato, ma può non esserci, perché la Umma esiste in base alla predizione ideologica e teologica che detta: “Voi siete la migliore comunità mai suscitata tra gli uomini”. Pur se generico, un richiamo alla Umma si trovava del resto anche nella Costituzione egiziana di Mohamed Morsi del 2012, dove, nel Preambolo, si diceva: “L’unità è la speranza della nazione araba è la chiamata della storia, l’ordine del futuro, la richiesta del destino”. Un messaggio non semplicemente ideale, ma messianico, salvifico, dunque innaturale e pericoloso per la Costituzione di uno Stato.

È anche in base a teorizzazioni di questo tipo che alcune menti deboli e deviate possono distorcere, anche inconsciamente, un progetto universale. Non importa se nella Promenade des Anglais ci sono donne e bambini. Lì c’è l’“altra comunità”: quella degli infedeli, gli uomini dell’Occidente, i corrotti, i miscredenti, i non musulmani. I nemici da sconfiggere sulla strada della Umma globale. Per non essere fraintesi, Islam e islamismo sono fenomeni diversi. Ma, la Sharia, che delinea una spiritualità avvincente quando enuncia le regole di vita del foro interno, diventa invece divisiva quando incatena le libertà dei singoli all’edificazione, politica e religiosa, della comunità universale dei musulmani. Così predicando, discrimina tra musulmani e non musulmani, tra Stati islamici e non, tra musulmani di diverse scuole ed etnie, tra uomo e donna, tra individuo e Umma, tra Oriente ed Occidente. In questo modo, la religione della unicità per eccellenza si trasforma nella religione della divisione, dove ciò che conta è l’unità dei musulmani, mentre chi sta fuori è altro, è la diversità.

Dinanzi a questo quadro, sabato scorso il segretario generale della Cgil ha pubblicato sul Corriere della Sera un appello contro il terrorismo, totalmente condivisibile e misurato nei toni, con un solo grande difetto: pecca di ogni e qualsiasi giudizio sulla natura, le cause, le ragioni del dramma odierno. Così concepito, è un proclama buono per il contrasto a ogni tipo di terrorismo, quando invece quello di matrice islamista, come a suo tempo quello brigatista, hanno connotati propri. Che cosa si vuol dire quando si afferma: “Non è più un problema che possiamo delegare ad altri. Dobbiamo tornare nelle strade, nelle piazze, in tutti i luoghi di lavoro. Dobbiamo tornare a difendere e promuovere con ancora più forza i nostri valori di libertà, democrazia, eguaglianza e solidarietà”.

Tanto e poco. Si può anche tornare in strada. Ma le piazze servono a poco se non si spiega la natura dell’avversario e delle ideologie che lo ispirano. Soprattutto se non si è in grado di batterlo sul suo stesso terreno, quello militare e delle idee. Si tratta infatti di dimostrare, coi fatti, che le libertà democratiche vengono prima di tutto e devono poter prevalere, senza paura, anche nei confronti di chi si serve della religione per fini politici. È con il coraggio degli atti e delle idee, del resto, più che con la piazza, che si combatte la paura e si difende la democrazia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:58