L’attentato al Cairo e l’Sos-terrorismo

Una violenta esplosione è avvenuta, alle ore 6,30 del mattino di sabato 11 luglio, nel cuore del quartiere Bulaq in cui si trova la cittadella italiana nella capitale dell’Egitto e la sede del consolato. In seguito alla esplosione, si è trattato di una auto bomba innescata a distanza, è stata sventrata e annientata la facciata del palazzo ocra, che ospita la sede del consolato italiano. L’attentato ha provocato la morte di un cittadino egiziano, un venditore ambulante di fede musulmana, Rabie Chaabane Abdel Al, e il ferimento di dieci cittadini egiziani. Nello stesso palazzo, in cui a sede il consolato italiano, si trovano alcune scuole, un ristorante e la sede della società dante Alighieri, luoghi per fortuna deserti al momento della esplosione.

L’attentato è stato rivendicato da un gruppo jihadista che pare, secondo le ipotesi avanzate dalla intelligence che sta conducendo le indagini, sia collegato con il Califfato, lo stato islamico integralista che si è costituito tra l’Iraq e la Siria. Gli osservatori internazionali, poiché il terrorismo che sta dilaniando il Medio Oriente presenta innumerevoli volti e sfugge ad una univoca interpretazione, hanno proposto diverse chiavi di lettura per decifrare il senso e cogliere la portata politica dell’attentato contro la sede diplomatica italiana al Cairo. La prima lettura ritiene che l’attentato debba essere messo in relazione con quanto accade all’interno della società egiziana.

Dopo la destituzione del presidente Morsi, attualmente sotto processo insieme con alcuni esponenti storici e di primo piano della Fratellanza Musulmana, in Egitto il presidente Abdal Fatth Al Sisi ha attuato una politica di repressione verso l’ala dura di questo movimento politico. Molti esponenti della Fratellanza Musulmana sono finiti in carcere in attesa di essere giudicati, altri si sono rifugiati in Libia, dove si sono convertiti ad un Islam più rigido e intransigente. Proprio il duro confronto politico tra Al Sisi, che rappresenta la istituzione militare che esercita un ruolo preminente sulla vita politica ed economica dell’Egitto, e le fazioni dell’ala dura della Fratellanza musulmana, sottoposta ad una azione repressiva promossa dal governo, ha scatenato un conflitto veemente in seno alla nazione Egiziana.

Infatti alla fine di maggio è stato ucciso il procuratore generale Hisham Barakat, un esponente della magistratura vicino al potere militare, che stava istruendo e incardinando i processi nei quali risultano imputati alcuni esponenti della Fratellanza Musulmana, osteggiata e avversata dal governo di Al Sisi. Proprio per questo motivo, in base alla lettura interna dell’attentato avvenuto sabato scorso al Cairo, alcuni osservatori hanno posto l’accento sul fatto che si sia trattato di un episodio drammatico e terribile che deve essere collocato nel contesto di un conflitto aspro e duro che vede contrapposto il governo Al Sisi e i militari, suoi sodali, e l’ala dura della Fratellanza Musulmana.

La lettura esterna dell’attentato, da altri osservatori considerata più credibile e persuasiva, ritiene invece che con questo attentato il gruppo jihadista, affiliato allo stato del Califfato, abbia inteso lanciare un segnale di avvertimento all’Italia ed all’occidente, impegnati entrambi a contrastare sul piano militare e geopolitico la espansione e l’aera di influenza dello stato integralista, che si è costituito nel nord dell’Iraq ed in Siria. Non va dimenticato che in questo momento storico in Medio Oriente è in atto un processo geopolitico che appare destinato a modificare e ridisegnare i confini e gli equilibri tre la nazioni.

Infatti si stanno sgretolando le nazioni che erano sorte e nate durante il periodo coloniale come la Siria e l’Iraq. Inoltre il Kurdistan, per effetto dei cambiamenti politici che si stanno verificando, potrà divenire uno stato indipendente e autonomo. In questa situazione, nella quale vi sono motivi fondati di preoccupazione sia per quanto avviene in Libia, un paese dilaniato dalla guerra civile, sia in Tunisia, dove la democrazia sorta in seguito alla primavera araba è insidiata dal fondamentalismo islamico alimentato dal messaggio violento diffuso dallo stato del Califfato, agli occhi della diplomazia occidentale il Generale Al Sisi appare come l’unico statista che nel Nord Africa può agire da argine per scongiurare la diffusione dello Jihadismo. Questo elemento è tanto più importante giacché storicamente è proprio in Egitto che negli anni settanta è stata teorizzata l’idea dello Jihad da alcuni teorici del fondamentalismo islamico, per i quali il martirio personale in nome della fede rappresenterebbe il sesto pilastro dell’Islam.

L’attentato contro il presidente Sadat, avvenuto nel 1981, rappresentò secondo gli storici il passaggio dalla teoria alla prassi di questa concezione radicale dell’Islam. Dopo l’accordo di pace stipulato tra l’Egitto e lo Stato di Israele, l’ala radicale dell’Islam, sorta e radicatasi in Egitto, si è rifugiata nella penisola del Sinai, che di fatto sfugge ad ogni tentativo di controllo da parte del governo Egiziano. In un primo momento, gli integralisti Egiziani, dopo gli attentati dell’undici settembre, si sono ritrovati all’ombra e sotto l’ala politica di Al Quaeda. Poiché la penisola del Sinai è divenuta la loro enclave ed il loro santuario, da questo luogo strategicamente e sotto il profilo geopolitico fondamentale, visto che confina con lo stato di Israele, gli esponenti dell’islam radicale egiziani hanno stretto e instaurato un rapporto di alleanza politica con lo stato del Califfato. Secondo questa lettura e interpretazione, vi sarebbe un legame organico tra i gruppi terroristici, che si muovono in Egitto, autori dell’attentato di sabato scorso, e le frange del ‘Islam radicale, sempre di nazionalità egiziana, che si sono insediati e hanno messo radici nella penisola del Sinai.

Questo fatto rende necessario assicurare un sostegno al presidente Al Sisi, come ha notato il Premier Italiano Matteo Renzi e ribadito il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, nella lotta contro il terrorismo, poiché la espansione e l’estensione dello stato del Califfato rischia di trasformare il Medio Oriente in un luogo perennemente instabile ed in un teatro di una guerra infinita tra sciiti e sunniti, e tra il mondo arabo e lo stato di Israele.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:02