I liberali italiani e la guerra

Amicus Plato, sed magis amica veritas” è senz’altro un motto eminentemente liberale, se non altro perché il contrario ne è la logica tribale, anzi il tribalismo tout court. Quella massima dovrebbe poi essere aurea, in particolare per gli intellettuali (inclusi i giornalisti) liberali. Con l’avvertenza che per “verità” si deve intendere soprattutto la sua ricerca indefessa attraverso il sacro e indispensabile confronto di opinioni ineluttabilmente diverse e lo sforzo di valutare queste ultime non secondo logiche amicali o di schieramento, ma secondo la loro rispondenza ai fatti nel loro concatenamento storico-temporale e, per così dire, “causale”.

Mi chiedo: i liberali italiani, e soprattutto gli intellettuali (inclusi i giornalisti) liberali italiani, sulle questioni relative alla guerra russo-ucraina si stanno rivelando fedeli a quella aurea massima? O in molti di loro sta prevalendo la ragion politica, la ragion di Stato o di schieramento internazionale (la fedeltà alla Nato identificata acriticamente e sbrigativamente senz’altro con l’Occidente e la sua civiltà)?

Che la ragion di Stato (e di schieramento internazionale) prevalga tra i politici e in particolare tra gli uomini (e le donne, la precisazione è oggi più che mai d’obbligo) di Governo italiani è cosa affatto comprensibile in un Paese come il nostro, caratterizzato da una doppia dipendenza: dagli Usa sul terreno militare e di sicurezza, dall’establishment dell’Unione europea sul terreno economico e finanziario. E ciò rende praticamente nullo lo spazio di manovra per gli Esecutivi italiani di qualsiasi colore e coalizione. I fatti stanno lì a dimostrarlo (anche se qualche eccesso oltranzista, non solo verbale, sarebbe stato possibile e auspicabile, anche se un tentativo di affermare una certa autonomia poteva e forse può ancora essere praticato in. ambito europeo o almeno franco-tedesco-italiano).

Ma gli intellettuali (e i giornalisti) italiani non possono sic et simpliciter sposare la ragion di Stato (e di schieramento internazionale) perché anche (e forse soprattutto) davanti alle emergenze belliche devono farsi testimoni di una continuazione della difficile ricerca della verità (prima vittima delle guerre) a prescindere dalla ragion politica e di Stato. Altrimenti, riprodurrebbero un classico “tradimento dei chierici”.

Senza entrare qui nel merito delle varie questioni di ricostruzione storiografica e di quelle etico-politiche poste dalla guerra russo-ucraina, mi limito a osservare la gogna mediatica (e non solo mediatica) a cui sono stati sottoposti in Italia (a differenza di altri Paesi occidentali, tra cui gli Usa) le seguenti opinioni:

quelle di coloro che hanno sottolineato le responsabilità almeno parziali occidentali (degli Usa in particolare) nel perseguire l’espansione della Nato fino ai confini della Russia;

quelle di coloro che hanno sottolineato le responsabilità dei vari governi ucraini dopo il rivolgimento politico del febbraio 2014 (detto Euromaidan), dal tentativo di negare ai circa 7-8 milioni di russofoni del Donbass l’uso della lingua russa nelle scuole e nei tribunali, al tentativo di regolare con la forza militare il conflitto nello stesso Donbass, fino alla mancata applicazione degli accordi di Minsk del 2014 e del 2015;

quelle di coloro che, pur definendo correttamente, in punta di diritto internazionale, aggressore e invasore lo Stato russo, rammentavano quei non trascurabili antecedenti e sottolineavano la rilevanza storica, etica e giuridica del fatto che il conflitto non fosse nato affatto il 24 febbraio 2022 – come vuole la narrazione preminente – con l’invasione russa, ma almeno ben otto anni prima.

Potrei continuare, ma mi fermo qui. Le questioni controverse sono troppe. Ripeto: non voglio entrare qui nel merito delle varie tematiche, però mi chiedo solo se molti intellettuali e giornalisti liberali non si siano allineati troppo allegramente alle semplificate valutazioni ideologiche dominanti (in qualche caso autentiche falsificazioni) e “politicamente corrette” (un esempio eccellente è rappresentato dall’editorialista liberale, Angelo Panebianco, come documentano vari suoi articoli in cui ha accusato di “anti-americanismo” e di “ostilità alla democrazia” chiunque esprimesse dubbi sulla narrazione manichea prevalente; e come fa fede anche l’articolo uscito sul Corriere della Sera del 17 ottobre, tutto basato su semplici congetture non dimostrate e indimostrabili riguardo alle presunte “vere” motivazioni attribuite al Cremlino dalla stampa mainstream).

Ma, soprattutto, c’è da chiedersi una cosa: i liberali italiani hanno sempre difeso il diritto e la libertà di opinione dei “dissidenti”? O si sono girati da un’altra parte quando quei dissidenti venivano (e vengono) additati al pubblico sdegno e ludibrio? Non è prevalsa troppo, in qualche caso, l’autocensura? Non c’è stata forse, talvolta, anche tra i liberali una censura sostanziale attraverso l’oscuramento, la marginalizzazione e una svalutazione aprioristica delle opinioni dissidenti? Credo che si tratti di questioni non secondarie, se vogliamo definirci davvero liberali.

Aggiornato il 14 dicembre 2022 alle ore 10:01