Il  male  dell’Italia? Il proporzionalismo

Entrando a piè pari, con insolita decisione, nel dibattito interno al Partito Democratico sul tema delle riforme costituzionali e, in particolare, dell’Italicum, Enrico Letta ha indirizzato all’attuale Premier un’espressione che un giornale ha definito sibillina: “Se vuoi andare veloce, corri da solo. Ma se vuoi andare lontano, se vuoi costruire, allora devi farlo insieme”.

Il contesto è sufficientemente chiaro perché tutti possano interpretare l’uscita dell’ex Presidente del Consiglio, ma questo non basta a far sì che essa - come invece sarebbe giusto - dica al Paese (prima che a Renzi, l’ovvio destinatario) cosa significhi, in positivo, “andare veloce” o “farlo insieme”. Nella sua onestà intellettuale di fondo, non in discussione, Letta resta “sibillino”, le sue parole non si sciolgono dall’impenetrabile oscurità in cui sono avvolte. E una ragione c’è, ed è che anche Letta esprime valori e intenti che non fuoriescono dall’orizzonte partitocratico. Credo sia ovvio inferire che l’“insieme” cui Letta si riferisce sia l’insieme del Pd e l’“andare veloce” che lui depreca sia il passo decisionista e arrogante che viene attribuito a Renzi e al suo modo di governare.

Insomma, Letta ammonisce Renzi a non volersi separare, dividere dal suo (anzi dal comune) partito. La saldatura tra il Premier e la compagine politica di riferimento è la sola via che a Letta pare valida per “andare lontano” e “costruire” qualcosa. Nello scontro interno, fratricida, che scuote oggi il Pd, la frase ha un suo senso: ma per il Paese, per i cittadini - come singoli o come insieme comunitario - quella frase non ha alcun senso, non dice loro nulla, non promette nulla di buono, di serio, di valido. Resta un’espressione - diciamo così - gergale.

Non c’è esperto, commentatore, politologo, editorialista, che non convenga, perfino corrivamente, che il Paese è nel pieno di una profonda crisi istituzionale e di sistema. Nessuno si azzarda più a dare consigli da officina meccanica, una di quelle officine che, sostituendo un pezzo o l’altro, rimettono in moto il motore ansimante. Non è questione di un pistone, delle bielle o del carburatore: è il motore che ha bisogno, nella sua interezza, di una revisione profonda, se non di essere sostituito. Quel che è oggi necessario al Paese è un “agonizing reapprahisal”, come si espresse un grande diplomatico americano quando decise di rompere l’ipocrita consuetudine di considerare il Paese dei Soviet e di Stalin come il rispettabile alleato della guerra antifascista. E venne la guerra fredda. Oggi non c’è bisogno di guerra fredda, ma di una fredda, completa, spietata riconsiderazione dell’assetto politico italiano sì, c’è bisogno. Era il miraggio della “Grande Riforma” craxiana, o l’ossessione berlusconiana del mutamento in senso presidenziale dei meccanismi di governo. Craxi fu fatto inciampare nella crisi morale del suo e di tutti i partiti, Berlusconi, molto poco esperto della durezza della politica, si limitò – anche con una punta di vanesio narcisismo – a cambiare il nome al capo del Governo, promuovendolo a “Premier”: una ridicolata, purtroppo.

Oggi, Renzi procede nel suo cammino solitario a colpi di machete, tra una fiducia e l’altra. Non fa che aggiungere nuova rovina alla rovina istituzionale che ha sconquassato il paese. Neppure lui osa affrontare il nodo della questione. Vuole spacciare la pasticciata manipolazione del Senato per Grande Riforma, poi magari se ne pente e ci ripensa, offrendo ai botoli che gli ringhiano dietro l’offa di un Senato sempre svirilizzato ma di nuovo elettivo. Non ci siamo, evidentemente. Però a Renzi dobbiamo riconoscere che il dito sulla piaga lo mette, anche più decisamente di Berlusconi, quando ripete caparbiamente che chi è al governo deve poter comandare. Deve poter decidere, perché in ultima istanza la responsabilità non può essere che sua. Il “Premier” della tradizione anglosassone non è un dato nominalistico, lui governa, sul serio. Anche, se v’è bisogno, in solitario. Niente di nuovo, del resto: lo consigliava già Montesquieu.

La malattia che Renzi denuncia, la difficoltà, se non l’impossibilità di governare per chi è al comando o, come avrebbe detto un disilluso Nenni, nella “stanza dei bottoni”, ha radici molto, molto lontane. Sta in quel proporzionalismo che resta come il tenace, pervicace sbarramento populista, il blocco già compiutamente consociativo gettato tra le gambe del governo. “Tutti assieme”, invoca Letta. Ma l’espressione potrebbe essere trasferita tranquillamente in un’altra: “Tutti fermi!”. Ci vuole ben altro che un “Italicum” per cambiare davvero, dal fondo, la cultura di governo del Paese.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:27