Ecumenismo con Lutero, e lo scisma?

La Riforma luterana prende inizio con l’affissione, da parte di Martin Lutero, delle famose 95 tesi contestatrici alla porta della cappella del castello di Wittenberg.

Non so se l’evento - la cui storicità viene peraltro messa in dubbio - potrà esser ricordato, come alcuni auspicano, con una cerimonia unitaria ed ecumenica che veda cattolici e luterani affratellati in preghiera e dialogo: non sono esperto di problematiche ecclesiologiche. Mi stupisce però l’esclusiva attenzione, la soggezione culturale con cui la faccenda viene seguita e stimolata. Certo, la secessione dal magistero cattolico romano innescata dalle tesi di Lutero ha marcato profondamente la storia europea. Ma credo che non meno drammatico e portatore di conflitti epocali fu lo scisma orientale, il Grande Scisma che, ben prima di Lutero, divise la Cristianità fra una plurima e sfaccettata Chiesa orientale - la cosiddetta Ortodossia - e la Chiesa occidentale, il Cattolicesimo romano stretto sotto un’unica cattedra, quella di Pietro.

Normalmente si indica il 1054 come anno d’inizio di questo scisma, l’anno in cui il Papa Leone IX e il patriarca Michele I Cerulario si scomunicarono a vicenda. Ma l’evento fu il risultato di un lungo periodo di progressivo distanziamento fra le due Chiese. Fin dai suoi inizi, la comunità dei cristiani riconosceva la posizione speciale di tre vescovi, denominati patriarchi: il vescovo di Roma, il vescovo di Alessandria e il vescovo di Antiochia; ad essi si aggiunsero il vescovo di Costantinopoli e il vescovo di Gerusalemme. I patriarchi avevano autorità e precedenza sugli altri vescovi. Fra di essi, poi, il vescovo di Roma deteneva uno status più elevato, non in quanto “successore di san Pietro” (definizione non accettata dagli altri patriarchi), ma perché Roma era la capitale dell’Impero romano. Anche quando (nel 330) Costantino il Grande spostò la capitale a Costantinopoli, il papa romano mantenne il suo primierato, che nei secoli venne rafforzandosi fino a raggiungere una particolare preminenza non solo religiosa ma anche politica, non gradita alla parte greco-orientale della Chiesa. Nel 1054 la separazione definitiva. L’Europa che Roma aveva unito si spaccava, anche culturalmente, in due, e ancora oggi ne subiamo le conseguenze, fino ai problemi politici innescati dalla Russia di Vladimir Putin, gran protettore dell’Ortodossia.

Quando Papa Paolo VI, nel 1964, incontrò il patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora, l’evento, dopo quattordici secoli di incomunicabilità tra le due parti, ebbe un valore ben più che simbolico: si accendeva la speranza di un ecumenismo che vedesse di nuovo riunite le membra lacerate della cristianità: “ut unum sint”... La spinta si è invece affievolita, difficoltà teologiche o, magari, politiche hanno eluso la speranza.

Oggi, nel mondo cattolico, l’ecumenismo – da quando Papa Francesco ne dà una particolare interpretazione, facendone una sua bandiera – appare quasi una eresia, risorgono o si rafforzano divisive spinte identitarie che assumono i lineamenti della cultura teologica di stampo professorale che fu di Papa Ratzinger, Benedetto XVI. La spinta propriamente pastorale di Papa Francesco viene osservata con diffidenza, quando non apertamente osteggiata e denunciata come eversiva rispetto alla tradizione consolidata (ossificata?) e mai messa in discussione. Se ne dà una interpretazione riduttiva, evidenziandone le ambigue origini, vale a dire il Concilio Vaticano II.

Sia lo Scisma orientale che la Riforma protestante hanno altre radici oltre a quelle religiose. L’Impero d’Oriente parlava greco, ed era venuto sviluppando forme culturali sue e specifiche, proiettato, con i suoi interessi geopolitici, verso l’Oriente (slavo), anche senza lo scisma religioso il distacco da Roma e dalla latinità sarebbe avvenuto egualmente. Qualcosa di analogo può dirsi della Riforma protestante, che fu la “forma” culturale di una separazione la cui ragion d’essere trovava motivi che già potrebbero essere presenti negli scritti di Tacito sulla Germania. La Riforma protestante attecchì in un Nord Europa in cui il passaggio, il dominio di Roma era stato meno profondo e radicale. Non diremo che i due eventi religiosi siano stati degli “epifenomeni” superficiali, ma certo non si sono verificati in ambienti neutri.

Comunque, si tratta di problemi interni alla Chiesa, o alle Chiese, ai quali il laico, per non dire il miscredente, non dovrebbe essere interessato. Certamente così è, nella comune e ovvia accezione. Tuttavia, al più incallito dei non credenti dovrà essere consentito di osservare che nel momento in cui pone come centrale la fede in un Dio che si fa uomo ed entra nella storia dell’uomo come Provvidenza regolatrice degli eventi, anzi come traguardo finale di tutta la Storia, il Cristianesimo postula come indispensabile la propria indivisibilità (ancora: “ut unum sint”). Credere in Cristo dovrebbe essere una verità che non sopporta interpretazioni o esegesi di sorta, l’assurdo della croce - nella quale prende corpo la immanenza di Dio nel mondo - si impone con una evidenza che travalica e sbaraglia ogni barriera dogmatica, ogni casuistica ecclesiologica. L’evento della Croce o è o non è: ma se è parla (dovrebbe parlare) un’unica lingua, le cui modulazioni non possono influenzare la sostanza della fede.

Oddio, ma che senso ha che queste cose vengano dette da un non credente? Contro i suoi ragionamenti sono sicuramente da attendersi le reprimende di una quantità di teologi, provenienti dall’una o dall’atra Chiesa, pronti a ribadire la necessità di distinzioni, di interpretazioni, di cavilli, di scomuniche e così via.

Aggiornato il 07 novembre 2017 alle ore 22:16