Se la democrazia divora se stessa

Sulla scorta dei risultati elettorali dell’anno scorso, che i dirigenti del Pd, Renzi in testa, continuano comprensibilmente a ricordare, è percezione diffusa che questo partito sia oggi non solo il primo partito italiano ma anche il dominatore incontrastato della scena politica. Del resto, si tratta di una percezione non infondata poiché, a contrastare o controllare l’azione della maggioranza parlamentare, e del Governo, sono rimasti solo pezzi di opposizione ma non “una” opposizione. Il Pd assomiglia, dunque, a una grossa gallina con tanti pulcini attorno, alcuni buoni e consenzienti e altri permalosi e punzecchianti, ma nulla di più. La stessa nuova legge elettorale, d’altra parte, sembra voler cristallizzare questa situazione e, semmai, agevolare, a parità di altri fattori, l’ulteriore crescita elettorale del partito di Renzi.

C’è allora da chiedersi se tutto ciò non prefiguri, da un lato, una democrazia trasfigurata e, dall’altro, la restaurazione di un regime che abbiamo già conosciuto nei decenni passati. L’Italia del dopoguerra, infatti, per le ragioni che tutti conoscono, è stata governata da un partito-chioccia, la Dc, sotto le ali della quale alcuni piccoli partiti aiutavano a mettere assieme la maggioranza parlamentare. Oggi quel ruolo sembra essere passato nelle mani del Pd nella versione renziana che, per vari aspetti, sta assumendo finalità e ponendo mano a riforme non certamente simili a quelle che avrebbero varato uomini come Longo, Berlinguer o Natta ma, semmai, democristiani di vario orientamento, come Forlani o Andreotti, Colombo o persino Fanfani.

Fin qui tutto bene, si fa per dire. Tuttavia, sia nel caso della Dc sia nel caso dell’attuale Pd, siamo di fronte ad una tendenziale “egemonia” parlamentare e partitica più che ad una semplice e, per definizione, transeunte situazione maggioritaria. Che fine ha fatto l’idea, corretta, dell’“alternanza”? Che classe dirigente è quella che pare orientata alla massimizzazione dei voti del proprio partito “ad libitum”, senza porsi il problema del limite oltre il quale la maggioranza finisce per diventare dittatura, come direbbe Tocqueville? È ovvio che nessun partito lavorerà mai per far aumentare i voti del partito avversario. Tuttavia, ciò è normale solo laddove maggioranza e minoranza si scambiano periodicamente i ruoli di governo e di opposizione, ma non nell’Italia attuale (e in quella dei tempi dell’egemonia democristiana) nella quale né il bipartitismo né il bipolarismo si sono mai concretizzati davvero e nella quale la nuova legge elettorale sembra fatta apposta per solidificare le circostanze attuali.

È chiaro che gli attuali partititi di opposizione, in particolare di centrodestra, hanno nelle loro mani buona parte della responsabilità, lacerati come sono da personalismi, ambizioni, ritorsioni mentre una loro maggiore compattezza, fino alla costituzione di un nuovo partito realmente unificato, porrebbe forse le basi per un futuro meno grigio. Ma le cause di questo destino, tutto italiano, a generare sistemi politici e parlamentari “egemonizzati” sono molto più profonde e diffuse. Lo stesso giornalismo non aiuta, poiché, per esempio, di fronte ad elezioni che vedano l’elettorato distribuirsi, poniamo quasi equanimemente, fra partititi di destra e di sinistra, tradizionalmente e acriticamente propongono titoli del tipo “Italia spaccata”, “L’Italia divisa in due”, invece di plaudere alla equilibrata e democratica espressione di idealità di destra o di sinistra, come accade nei Paesi caratterizzati da sistemi politici più maturi. O forse avete mai sentito o letto titoli melodrammatici come quelli sopra indicati, che richiamano i tempi dei guelfi e dei ghibellini, quando un candidato americano repubblicano vince con il 54 per cento, contro il 46 per cento andato al candidato democratico, o viceversa?

Il fatto è che, la nostra, è ancora una democrazia “all’italiana”; una democrazia poco liberale nella quale gli stessi elettori di una parte politica gioiscono all’idea che il proprio partito cresca e cresca indefinitamente, senza limite, magari fino al 90 per cento considerando questa l’unica via per la quale l’Italia si mostri “unita” e non “spaccata”. Senza alcun rispetto per le idee della minoranza e, dunque, con la spavalda sicumera di chi crede ciecamente nella propria ideologia, come fine ultimo della Storia. Purtroppo questa è una delle strade migliori per arrivare al totalitarismo, che in effetti ha origine, come Rymond Aron ci aveva spiegato nel secolo scorso, quando il popolo decide, più o meno gradualmente, di concedere monopolisticamente il potere ad un solo partito. Trascurando il ruolo decisivo della minoranza nell’esercitare il necessario controllo e nel proporsi come potenziale ricambio per evitare gli inesorabili errori che qualsiasi monopolio accumula nel tempo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:31