L’egoistico conservatorismo di sir Roger Scruton

Nel XIV secolo, il filosofo inglese Guglielmo di Ockham formulò un principio che è restato e resta alla base delle filosofie di stampo anglosassone, il principio cioè secondo il quale, per rendere conto di un determinato fenomeno, non occorre formulare più ipotesi di quelle che siano necessarie e sufficienti a descriverlo: è inutile moltiplicare ipotesi, suggerire soluzioni, avanzare proposizioni complesse - anche se fascinose - per spiegare quel che accade nel mondo che conosciamo, il mondo che ci è dato dall’esperienza sensibile.

A ogni problema ci venga posto è bene rispondere seguendo i precetti della fisica piuttosto che tentare le vie vertiginose e spericolate della metafisica: è un universale principio di economia che dobbiamo tenere per valido anche nella logica. Alcuni secoli dopo, un altro filosofo di cultura inglese, George Berkeley, formulò una tesi per la quale nulla esiste come cosa in sé, ogni dato della realtà è semplicemente quel che viene percepito dai nostri strumenti del conoscere: i sensi e l’applicazione, su di essi, della razionalità: è suo il famoso detto, “esse est percipi”.

Per l’uno come per l’altro filosofo, le astrusità della ontologia metafisica sono castelli in aria, fumisterie. Ancora oggi, il miglior pensiero dell’area anglosassone si muove su questi cardini, lontano dalle costruzioni metafisiche di quello, come si dice, “continentale”, cioè europeo e di aree affiliate. Su queste basi, la cultura inglese ha costruito società, istituzioni, legislazioni, costumi e abitudini liberali, aperte, ricettive, espansive.

Mi tornano in mente questi nomi (e pensieri) mentre leggo l’intervista concessa a Francesco De Leo, e registrata su “Il Foglio”, da sir Roger Scruton, uno dei rappresentanti più significativi del pensiero conservatore inglese di oggi. L’intervista distilla l’essenza di una filosofia elaborata in decine di libri e scritti. Anche qui, naturalmente, Scruton fa riferimento ai principi di quella “common law” che informa il diritto, anzi la giurisprudenza del suo Paese.

“Per noi – ricorda – la Legge non è dettata da un monarca, viene scoperta dai giudici nei Tribunali... Questo è un concetto giuridico che abbiamo dai tempi degli anglosassoni, dunque da oltre mille anni. Vuol dire che la Legge è emanazione del popolo, non imposizione della Corona al popolo. In Italia – prosegue Scruton – la Legge vi è stata imposta in modi e tempi diversi, a cominciare da Napoleone, per effetto di un atto di conquista...”.

Scruton avrebbe potuto - credo più correttamente - avvertire che il Codice Napoleonico su cui si è modellato il nostro sistema del diritto è una rimodulazione dei principi e delle norme di quel Diritto romano che viene fatto risalire a Giustiniano e oltre; una concezione del diritto e delle sue fonti che è all’opposto della “common law”. Io sono un ammiratore della “common law” e del sistema giudiziario inglese, più flessibile e diretto di quello che regna nei nostri tribunali, mix di Diritto romano e di legislazione clericale, con la sua diffidenza e ostilità nei confronti della terzietà del magistrato giudice, ecc.. La “common law” ha ispirato, credo si possa dire, le legislazioni di mezzo mondo, e si è dimostrato strumento di progresso e di libertà.

C’è però qualcosa di poco convincente nella modulazione che ne fa Scruton. Credo si possa dire che le sue idee ricalchino i temi esposti da un altro grande conservatore inglese, Edmund Burke, il politico che denunciò gli eccessi della Rivoluzione francese, vista come una minaccia alle istituzioni tradizionali, viste come necessario, costitutivo fondamento di ogni buona società. Ma Burke difese la Rivoluzione americana, e i suoi principi ispiratori furono sempre rivolti alla promozione (di stampo illuminista) della e delle libertà, mentre Scruton fa dei suoi dichiarati valori – tra cui, dominante, la difesa del luogo natio, dei beni domestici – una barriera contro le intrusioni nella propria intimità o, se si vuole, identità. Scruton si “difende”, esibendo – piaccia o no – una notevole misura di egoismo.

Il migrante che non ha, che ha perduto la sua casa e i suoi valori, cosa dovrà fare? Cos’altro può perdere, se non la sua vita? A questa domanda non mi pare che Scruton possa o voglia dare risposta. Burke fu il leader di una grande stagione liberale, Scruton si preoccupa e si occupa soprattutto di salvaguardare il bene e i valori della sua proprietà privata, il confortevole resort nella verde campagna inglese. Il solido empirismo britannico si trasforma, nelle sue tesi, in un gretto misoneismo, un insularismo senza prospettive, in un moralismo inadeguato alla grandiosa, epocale, pesso tragica vicenda globale dei nostri tempi.

Aggiornato il 26 ottobre 2017 alle ore 10:53