La nota vaticana e laicità, la sessualità e il diritto

L’idea che la nota vaticana sul Ddl Zan possa aver messo a rischio la laicità dello Stato, come da alcuni ritenuto negli scorsi giorni, merita di essere presa sul serio e discussa. Per affrontare il problema, tuttavia, alla passionalità dello spirito politico risorgimentale, legittimo e ammirevole, sebbene posticcio nei tempi e precario nella sua fondazione, sarebbe preferibile la serenità dello spirito filosofico sapienziale che cerchi di investigare la realtà più che con il patos del militante, con il logos del raziocinante, poiché senza razionalità è difficile aver ragione.

Proprio alla luce della ragione occorre tener presente alcuni dati irrinunciabili di fatto e di principio. In primo luogo il dato storico: piaccia o meno, cattolici o meno, liberali o meno, risorgimentali o meno, la storia non può essere cancellata. Proprio per questo sarebbe bene tener sempre presente che lo strumento giuridico concordatario non soltanto nasce come presidio di garanzia della distinzione tra sfera spirituale e temporale, ma che per di più è frutto dell’esperienza giuridica della Chiesa che lo utilizzò già a Worms nel 1122 per porre fine alla disputa sulle nomine episcopali (più comunemente nota come “lotta per le investiture”) compiute dall’imperatore tedesco che evidentemente si era arrogato diritti non suoi.

Il Concordato, dunque, non è violazione della laicità, ma concretizzazione giuridica della stessa per consentire la correttezza, la chiarezza e la libertà nei rapporti tra Chiesa e Stato. La laicità a sua volta, dispiaccia o meno ai laicisti odierni (cioè a coloro che o ignorano o fanno finta di ignorarne l’origine storica), è epifania non soltanto di un noto principio evangelico che chiarisce la distinzione (non la contrapposizione, né la fusione) del rendere a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio, ma è per di più di matrice strettamente cattolica essendo stato utilizzato per la prima volta il termine “laico” – nella medesima odierna diffusa accezione – proprio da Papa Clemente Romano nella sua lettera ai Corinzi nel I secolo dopo Cristo.

In fondo non si dovrebbe far fatica a riconoscere che certi comuni e illuminati principi odierni, come per esempio l’uguaglianza, oltre la laicità, hanno una derivazione prettamente cristiana. Almeno, se proprio non si vuole ricorrere all’oramai blasonato Benedetto Croce, in questa direzione si sono espresse menti illuminate come Giuseppe Mazzini per il quale, infatti, nella Dichiarazione dei diritti dell’89 sono stati riassunti “i risultati dell’Epoca cristiana, ponendo fuor d’ogni dubbio e innalzando a dogma politico, la libertà conquistata nella sfera dell’idea del mondo greco-romano, l’eguaglianza conquistata dal mondo cristiano e la fratellanza, ch’è conseguenza immediata dei due termini”.

Il principio di laicità, dunque, è pienamente tutelato e integrato dall’istituzione concordataria, e, peraltro, come ha insegnato la stessa Corte Costituzionale con la celebre sentenza 203/1989, deve essere inteso non nella accezione negativa “alla francese”, ma in una accezione positiva: “Il principio di laicità, quale emerge dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

In secondo luogo: la nota della Santa sede non intende imporre al Parlamento italiano la dottrina della rivelazione in tema di dicotomia sessuale maschile-femminile, ma semmai intende interrogare lo Stato intorno alla propria libertà di professare la suddetta dottrina della rivelazione dopo l’eventuale approvazione del Ddl Zan nella sua attuale formulazione. Scambiare e confondere il “petitum” con la “causa petendi”, quindi è un errore che non ci si può permettere proprio seguendo il tenore letterale della nota vaticana medesima che appare fin troppo chiara per essere bisognosa di interpretazioni.

In terzo luogo: la dicotomia della umana sessualità non è certo un portato esclusivo della rivelazione cristiana, tanto da essere riconosciuta anche dagli altri due monoteismi, e dal pensiero filosofico e antropologico classico pre-cristiano, per esempio e soprattutto ai fini della definizione giuridica della coniugalità.

In questo senso, del resto, più chiaramente non avrebbe potuto esprimersi il Consiglio di Stato con la esemplare sentenza numero 4899/2015, vera sintesi di perfezione giuridica sotto ogni aspetto (costituzionale, civile e amministrativo), in cui così si riconosce: “Risulta agevole individuare la diversità di sesso dei nubendi quale la prima condizione di validità e di efficacia del matrimonio, secondo le regole codificate negli articoli 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis Codice civile ed in coerenza con la concezione del matrimonio afferente alla millenaria tradizione giuridica e culturale dell’istituto, oltre che all’ordine naturale costantemente inteso e tradotto nel diritto positivo come legittimante la sola unione coniugale tra un uomo e una donna”.

In quarto luogo: ciò che mette in pericolo la laicità è proprio il Ddl Zan che pretende di “corazzare” penalisticamente una determinata visione dell’uomo – cioè quella post-umanista tipica dell’ideologia gender – proprio tramite una legge dello Stato, non soltanto rendendo la suddetta prospettiva genderistica una “verità di Stato”, ma per di più stravolgendo quella fino ad adesso dominante che è stata quella naturale, come in fondo cristallizzata dagli articoli 29 e 30 della Costituzione.

Infine: a prescindere da tutto ciò, inoltre, ci si dovrebbe chiedere – sempre laicamente, cioè senza pregiudizi ideologici – se sia realmente accoglibile la visione del diritto, e del diritto penale in particolare, che il Ddl Zan presuppone, cioè come strumento pedagogico.

Ci si rende conto che trattasi di una problematica tipica della filosofia e della teoria generale del diritto, la cui luce è mal vista negli angusti ambiti dei giuristi positivi imprigionati nelle pieghe del codice, ma ciò nonostante rimane intatta la sua eminenza che, volenti o nolenti, interroga le coscienze di tutti e si appella alla comune ragione che tutti si presuppone possano esercitare come si augurava, per primo, Eraclito.

Aggiornato il 28 giugno 2021 alle ore 11:32