Giuli: “I giovani di oggi? Frenati dall’infantilismo dei figli del ’68”

In una parola: crescere. Ma a volte, in paesi come l’Italia, in città come Roma, Milano o Napoli, questo non basta più. I giovani italiani non trovano spazio. Sono orfani di un sistema educativo fuori tempo calpestato dalla retorica della neutralità e del politicamente corretto e di una società che punisce chi è ancora lontano anni luce dalla pensione. Spesso vivono a casa dei genitori per oltre 30 anni e spesso, troppo spesso, sono senza lavoro o sottopagati, al punto tale da non potersi permettere una vita propria. Senza la possibilità di maturare. La colpa, per Alessandro Giuli giornalista e direttore di “Tempi”, è del giovanilismo di cui soffrono i figli e le figlie del 1968. Di una politica che calpesta i diritti delle nuove generazioni e di tutto ciò che impedisce all’individuo di farsi largo nella società. Le uniche cose che restano sono solo macerie della povertà e l’irraggiungibile utopia, almeno qui da noi, della ricerca della felicità.

Cosa vuol dire essere giovani oggi?

Domandone! Essere giovani oggi significa compiere uno sforzo eroico perché dal punto di vista anagrafico i giovani sono pochi e ostacolati da un sistema che ne limita l’ingresso nel mondo del lavoro e nell’età matura.

Uno scontro generazionale?

Esatto. Questa mi sembra la cosa più importante. Essere giovani oggi significa avere a che fare con il cattivo esempio del giovanilismo dei padri, dei genitori. Una classe di età a grandi linee risalente al 1968. Quelle due generazioni di madri e padri che dal ’68 in poi hanno governato la cultura e l’organizzazione della società. I giovani sono vittime di una sindrome d’infantilismo che rivendicano con orgoglio e che di fatto li trasforma in bambinoni. Alla fine fanno concorrenza alle nuove generazioni che hanno il diritto di essere giovani. In sostanza non c’è solo uno scontro tra generazioni. Il problema riguarda anche i diritti da acquisire, come le pensioni che i ragazzi di oggi non vedranno probabilmente mai. Lo scontro è tra giovani autentici e una generazione di quaranta, cinquantenni che imbracciano la retorica del giovanilismo e soffocano i nuovi arrivati.

Quali sono i problemi più gravi che i ragazzi devono affrontare?

Allora, i problemi più gravi sono l’educazione e l’occupazione.

Partiamo dal primo punto…

L’educazione è qualcosa che forse la nostra classe di età (quelli nati nella seconda parte degli anni Settanta, ndr) ha conosciuto. Il vero problema è che i giovani oggi sono abbandonati dal punto di vista della formazione. Quando dico educazione intendo un complesso più generale che riguarda ad esempio l’educazione civica che è scomparsa dalle scuole, che riguarda i riti di passaggio che un tempo avvenivano nelle famiglie e nei luoghi fisici dove il transito dall’età puberale a quella più matura si praticavano. Mi riferisco alla logica dei quartieri, dei muretti, delle compagnie, dello stadio. Questa cosa è scomparsa ed era un elemento importante perché i giovani facevano conoscenza della gerarchia per esempio. E del rispetto per i più grandi. Perfino di una violenza misurata e controllata. Oggi tutto questo è scomparso. Ernst Jünger diceva: “Quando Ares scompare la spada diventa scannatoio”. Cioè non esiste più un sistema di regole che governa l’istinto alla violenza dei giovani. Non c’è più l’attenzione per l’educazione fisica, per lo sforzo e per scaricare tutta l’aggressività naturale, ormonale dei giovani. Sistemi educativi risalenti nel passato e legati a concetti come l’onore, il rispetto, la lealtà. Scomparso tutto questo, il giovane diventa una monade priva di qualsiasi punto di riferimento e potrebbe trasformarsi in un potenziale maniaco aggressivo. Questo è il concetto di educazione che è completamente scomparso calpestato dalla retorica della neutralità: neutralità di genere, neutralità culturale che impera nei corsi di studio delle nostre scuole, nelle famiglie inibite dal politicamente, socialmente, sessualmente corretto.

E dell’occupazione che mi dice?

L’occupazione è il secondo grande problema. Quando il giovane entra in età lavorativa oggi trova poco e niente. Trova molta retorica, trova qualche bonus decontributivo per chi lo assume, ma fondamentalmente trova un mercato asfittico e che gli impedisce di essere se stesso cioè una forza della natura a disposizione della comunità.

Un esempio?

Faccio un piccolo esempio. Il ministro Valeria Fedeli prima invoca il ciclo breve di studi per il liceo, cioè la maturità che si consegue dopo il quarto anno. Poi chiede l’innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni. Tutto questo rappresenta un classico cortocircuito mentale e culturale. Dà ai giovani la possibilità di studiare meno, ma allo stesso tempo li obbliga ad avere un’attività scolare maggiore, creando come abbiamo scritto su Tempi, la figura dell’esodato. Lo studente esodato che magari finisce dopo 4 anni il ciclo di studi, ma deve arrivare a 18 anni e non vuole iscriversi all’università. E per un anno che cosa fa? Dove studia? Probabilmente si farà bocciare per arrivare ai 18 ed entrare nel mondo del lavoro senza l’università. Questo per dire che tutto il sistema oggi è organizzato per non dare educazione e formazione tradizionale ai giovani e per soffocarli in un mercato del lavoro occupato da anziani. È una piramide rovesciata che grava su di loro.

L’istruzione ha quindi un ruolo molto importante in questo contesto…

Come dicevo ha un ruolo importante, ma la hanno smantellata. La scuola gentiliana, la scuola dell’umanesimo ha rappresentato un punto di riferimento che ha creato fior di scienziati. Questo bisogna comprendere. La cultura tradizionale, il liceo classico, l’istruzione che abbiamo avuto fino a qualche anno fa ha dato la possibilità a molti giovani di conoscere il latino e il greco, pensare in latino e in greco. Avere una conoscenza tradizionale e metterla anche a servizio della scienza, perché molti scienziati, italiani e non, hanno una formazione umanistica. Ecco perché l’istruzione è fondamentale, ma oggi il liceo classico è disincentivato mortalmente. Oggi lo Stato non riesce a garantire più un’educazione forte e tradizionale e per di più le scuole paritarie sono abbandonate a se stesse in un regime poco limpido, poco chiaro. È una situazione in cui l’istruzione, che è il cuore della formazione dei giovani, è clamorosamente svalutata dalla nostra classe dirigente.

La laurea serve ancora a qualcosa?

La laurea serve soltanto perché è una parola bella che richiama il lauro, che è una pianta sacra ad Apollo. Per il resto non serve a niente, come non serve a niente l’obbligo scolastico. Fosse per me io abolirei la scuola dell’obbligo e il valore dei titoli di studio e incentiverei molto di più l’accostamento alla musica che è la trama acustica di cui si compone l’universo, cara alle muse e ad Apollo. Questo avrebbe più senso. Le posso assicurare che in questo momento la laurea è solo un timbro sul nulla.

Molti giovani sono senza un futuro e senza lavoro. Se lavorano sono sfruttati e sottopagati. La politica può fare qualcosa di concreto per risolvere questo problema?

La politica deve fare qualcosa di concreto. Però attenzione a non cadere nell’idea sterile per cui sia più importante avere un posto di lavoro purché sia, piuttosto che avere uno stipendio decoroso. Cioè è giusto accettare un lavoro precario, non garantito, non assistito dallo Stato a patto che questo lavoro precario sia incentivato da livelli di stipendio buoni. Abbiamo mutuato dal mondo anglosassone l’idea che il posto fisso non esiste più. Ed è anche una necessità storica probabilmente che è subentrata a delle vecchie logiche. Va bene. Ma o si fa una politica dei salari che incentiva la ricerca del lavoro precario - e allora viene premiato il valore e la capacità di adattarsi al lavoro che si vuole, che si sceglie - oppure è tutta una balla.

Perché una balla?

Perché precarizzare il lavoro e tenere i salari bassi è una stretta micidiale intorno alle prospettive di vita dei giovani.

Ha ragione secondo lei Giuliano Poletti quando dice che serve più calcetto che curricula?

Quelle sono frasi dette così e che rendono impopolari dei politici di provincia, simpatici come il ministro Poletti. Io non lo colpevolizzerei per quella affermazione un po’ infelice forse, ma insomma non è questo il punto. Tutto sommato è vero che il curriculum serve a poco. Il valore deve essere messo in condizione di esprimersi sul campo, piuttosto che sul tracciato di un file inviato attraverso la posta elettronica.

Steve Jobs una volta ha detto: “Stay hungry, stay foolish”. È ancora attuale come consiglio?

Preferisco non commentare le frasi di Jobs perché considero la sua filosofia, come quella di Mark Zuckerberg e di tanti altri attori che controllano la virtualizzazione del reale, un esempio e un modello ambiguo e sospetto. Quindi diciamo che contrapporrei alla filosofia arrembante di chi pretende di trasferire l’umanità in un non luogo fatto di social autoreferenziali, una visione più legata al dato materiale. All’elemento spirituale che caratterizza le civiltà contadine per esempio. Diciamo così: mi fido più del contadino del podere accanto che di Jobs. Quel contadino, infatti, rispetta la massima di Catone il censore che condivido e che diceva: “La grandezza di Roma sta nella spada e nell’agricoltura”.

Aggiornato il 31 agosto 2017 alle ore 16:55