L'Italia del patto stato-mafia

Una vicenda sbiadita s’annidava tra i ricordi italiani. Su giornali e tivù si parla del patto stato-mafia del ‘90, e la mente corre al 1944. Poi agli uomini che non passarono dal movimento indipendentista alla Diccì, facendo tutti brutta fine. La mafia aveva abbandonato gli indipendentisti ed era passata con i democristiani? Visione sbrigativa. Già nel periodo post unitario, pochissimi anni dopo la “spedizione dei mille” e l’annessione della Sicilia al Regno sabaudo, scoppiarono focolai di ribellione contro i piemontesi, la poco nota rivolta del “sette e mezzo”.

Nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866 migliaia di contadini raggiunsero Palermo, e già la popolazione tutta era in ribellione. Fonti governative parlarono di «40 mila uomini in arme». Alla rivolta partecipano un centinaio di ex-garibaldini. Nessuno seppe spiegarsi questa rivolta sortita dal nulla, e senza alcun preavviso. La rivolta venne sedata bombardando la città dal mare: oltre un migliaio di morti e tanti sopravvissuti vennero condannati a morte. Poi i patti, gli incontri con alcuni “nobili delle campagne”, gente beninformata nel triangolo di terra sotteso tra Montelepre, Bagheria e Corleone: tutto rientra, perché lo stato tratta con la mafia delle campagne e poi concede l’amnistia ai condannati. Vedete bene che l’episodio oggi oggetto d’indagini vanta nobili ed antichi natali.

Durante tutto il Ventennio fascista non s’appalesa alcun problema: il prefetto Mori aveva detto al Duce che il livello mafioso stava salendo. Mussolini ribatteva “io non tratto” ed ordinava al “prefetto di ferro” di bombardare la cittadina di Gangi (roccaforte dell’antica mafia delle campagne). Per qualcuno si trattò di gesto avventato: durante il bombardamento perirono dei parenti stretti di Lucky Luciano, gente che sarebbe migrata a Gangi da Lercara Friddi (paese natale di Luciano). Scoppia la Seconda guerra mondiale, e il governo americano contatta Lucky Luciano: gli uomini del Dipartimento di Stato Usa girano il coltello nella piaga, gli raccontano per filo e per segno ogni particolare del bombardamento di Gangi, anche della morte dei suoi congiunti.

La famiglia è sacra, e Luciano mette in contatto il vertice del Dipartimento di Stato con la mafia siciliana. Così lo sbarco nell’Isola viene organizzato dalla mafia per punire Mussolini del bombardamento di Gangi. L’Operazione Avalanche è un dossier storico dell’Oss (organizzazione segreta che nel 1945 cambia nome in Cia) e reca la firma in calce di Luciano, che aiutò il governo statunitense in cambio di forti aiuti a Cosa nostra, e affinché la mafia riconquistasse politicamente la Sicilia. Terminata la Seconda guerra, chi aveva trattato politicamente con Luciano divenne padrone dell’Isola. Luciano ottenne anche altre facilitazioni: nel 1946, come ricompensa, venne rilasciato dal sistema carcerario Usa a patto che si trasferisse in Sicilia.

Accettò e si trasferì nell’Isola, portando con sé 150.000 dollari dell’epoca, a cui si sarebbe aggiunto un vitalizio per collaborazione con i capicentro Cia in Italia. Le cronache mondane dell’epoca ritraggono Luciano come una star, ospite dei migliori alberghi, ricercato da giornalisti, politici, scrittori, fotografi... al punto che Fellini avrebbe (in una delle tante stesure incomplete del suo Otto e Mezzo) ipotizzato un personaggio che condensava le peculiarità ed il fascino discreto di Lucky. Allora chi erano i democristiani di Sicilia che dal “Movimento indipendentista” passarono con la Diccì? Soprattutto non lo fecero in onore ad un sempre rinnovato “patto stato-mafia”? Quei signori Diccì avevano in un certo senso preparato il terreno alla star Luciano: nel 1943 avevano propugnato l’indipendentismo siciliano, la separazione e la creazione di una “repubblica isolana”. E qui il mistero s’infittisce, nella Sicilia separatista di Andrea Finocchiaro Aprile (fondatore e leader del Movimento indipendentista siciliano) al professor Antonio Canepa veniva affidato nel 1945 il comando dell’Evis (formazioni armate indipendentiste, sovvenzionate dall’Oss).

Non è certo un caso che proprio nell’Evis veniva arruolata l’intera banda di Salvatore Giuliano: i cosiddetti “Niscemesi”. La presenza dei “Niscemesi” era per l’antica mafia agraria un fattore d’affidabilità dell’Evis. «Metà ai professori e metà a Giuliano», avrebbe sentenziato Luciano. Ma il vento cambia, soprattutto la Diccì da tali e tante garanzie agli Usa da rendere Movimento indipendentista ed Evis ormai inutili. Così se separatismo a metà degli anni Quaranta coinvolse tutta l’isola, con la concessione dell’Autonomia speciale (1946) l’intero indipendentismo si dissolse lentamente nella Diccì. Alle elezioni regionali del 1951 i separatisti s’erano già tutti democristianizzati.

E pensare che il loro progetto era fare della Sicilia la cinquantunesima stella della bandiera Usa, il cinquantunesimo stato: per altro gradito a Luciano e considerato dal Dipartimento di stato Usa l’unico rimedio se in Italia avesse vinto il Pci di Togliatti. Ma auspicare uno stato siciliano separato significava battere moneta, e la soluzione venne subito trovata in quei salotti siciliani frequentati dal barone Lucio Tasca (nominato dagli Alleati Sindaco di Palermo nel 1943), da Stefano La Motta barone di Monserrato, da Guglielmo Paternò Castello duca di Carcaci, dal principe Giovanni Alliata, dal barone Nino Cammarata... e da tutta la bella compagnia che rammentò come fino al fascismo il Banco di Sicilia aveva diritto al conio, a stampare carta moneta.

In quel clima di importanti aspettative, vi erano notevoli pressioni esercitate sia dai servizi segreti americani che inglesi, e per cercare d’attirare nella rispettiva sfera d’influenza l’isola indipendente. Nel 1943, l’amministrazione degli Alleati vietava ogni attività politica, tollerando solo l’esistenza del Movimento indipendentista siciliano. Aldilà del connubio fra lotta politica e vecchia mafia agraria, le ragioni economiche di questa separazione e, soprattutto, la possibilità di battere dollari nel Mediterrano spinse sia Calogero Volpe che Calogero Vizzini ad appoggiare incondizionatamente il separatismo: naturalmente furono i primi a chiedere che lo stesso patto li garantisse con la Diccì.

Naturalmente non mancarono le vendette: in uno degli assalti dell’Evis alle caserme dei Carabinieri, vennero uccisi dei militari italiani che avevano partecipato al bombardamento di Gangi da parte del prefetto Mori. Ed allora gli assalti alle caserme dei Carabinieri di Bellolampo e Montelepre erano gradite a Luciano? Mai nessuno indagò in tal senso, anche perché Lucky era ospite d’una festa mondana in entrambe le circostanze, e indagare sui mandanti era non poco farraginoso. Intanto presso la direzione palermitana del banco di Sicilia già respirava aria di dollari. Aria di vecchi fasti, non dimentichiamo che la banca era comunque erede del Banco delle Due Sicilie e del “Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro”: coniavano moneta da centinaia d’anni prima dei Savoia.

E Luciano, che aveva lasciato l’Isola col “ferry boat”, ora veniva visto come il salvatore della Sicilia: almeno da chi sapeva dell’aiuto dispensato tramite il Dipartimento Usa. Ecco che il patto “stato-mafia” lega la Sicilia all’Italia fin dalla nascita della Repubblica: all’epoca l’Isola era retta dall’Alto Commissario (siamo nel 1944). Ed il 15 maggio del ‘46 veniva promulgato da re Umberto II il decreto legislativo che riconosceva lo Statuto Speciale alla Sicilia: Statuto poi convertito dal parlamento repubblicano in legge costituzionale il 26 febbraio 1948. Il movimento indipendentista non serviva più, ma in molti erano rimasti con l’amaro in bocca per non aver maneggiato i dollari: enorme il danno alla mafia, tante le speranze economiche tradite. La Diccì riconobbe che erano state tarpate le ali alla Sicilia, quindi rinnovava il patto stato-mafia. E Luciano, che conosceva bene la storia, si dilettava di salotto in salotto spiegando che i siciliani avevano fatto sia l’Italia unita che, soprattutto, la Repubblica italiana.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11