Rafael Alberti: fenomenologia di una specie estinta: il comunista

A Roma negli anni Sessanta vi fu una vera e propria tribù di esuli comunisti da ogni parte del mondo, specialmente spagnoli e latino-americani. L’esule più noto, nella mia esperienza, fu Rafael Alberti, insieme alla compagna María Teresa León. Alberti fu un poeta della generazione di Federico García Lorca, antifranchista e dunque in esilio: prima Russia, poi in Argentina, infine in Italia. Medio di statura, una zazzera lunga fino al collo rimboccata sulla nuca, volto gonfio dalle palpebre pesanti, naso aquilino e occhi marroni, mobilissimo nel corpo anche se panciuto, Alberti era poeta in ogni momento della sua vita, qualsiasi cosa facesse o dicesse la esprimeva naturalmente in forme poetiche, metafore, associazioni linguistiche, una libertà espressiva sorgiva, continua, pittoresca e una esperienza internazionale che univa tutti i continenti. Sicché a Trastevere, in via Garibaldi 88, nella sua bella casa luminosa e scarna di mobili – giacché, come dirò, Alberti non viveva da benestante – si raccoglievano personalità mondiali: pittori, scultori, architetti, poeti, narratori, registi. Tra costoro, assiduamente, Miguel Ángel Asturias Rosales, con la moglie Blanque, e perfino il celeberrimo pittore dei Murales David Alfaro Siqueiros, messicano, colui che contribuì, si diceva, all’uccisione di Lev Trockij per ordine di Stalin. Siqueiros era un uomo alto, asciutto, portava la testa con orgoglio e presunzione, sembrava l’unico gallo nel pollaio, si faceva notare e ci teneva a farsi notare. Chissà se considerava un gran merito aver aiutato a uccidere Trockij!

In ogni caso, aveva una sfrontatezza di portamento che dava l’impressione di un uomo che colpe di certo non ne sentiva. La moglie di Rafael Alberti, María Teresa León, era una comunista implacabile, se discutendo si affacciavano delle critiche, delle riserve sul comunismo, María Teresa induriva il meraviglioso volto e fissava nel vuoto i suoi occhi azzurrissimi diventando di pietra. Non parlava, ma era come se respingesse tutto ciò che veniva detto. In effetti, la colonia comunista accampata a Roma si poteva distinguere in atteggiamenti ben caratterizzati: vi erano comunisti in quanto antifascisti o antifranchisti, un tipo particolare di comunisti, non comunisti come tali ma comunisti in quanto antifascisti, per costoro purché si criticasse il fascismo nelle varie formulazioni qualche riserva sul comunismo poteva esistere, fu una tipologia di comunisti che ebbe osservanti anche in Italia, e perdura; vi era poi il “comunista-comunista”, il quale ovviamente era anti fascista ma innanzitutto era comunista. María Teresa León nelle pochissime volte in cui parlava e non si limitava a fare la padrona di casa ma la vestale dell’ideologia stava tra i “comunisti-comunisti”. Sia chiaro: persone che avevano avuto una vita orrenda, scacciate di qua e di là secondo i regimi, e non è che si trovassero meravigliosamente in Russia, a quanto si capiva, pur essendo comunisti. Un problema nel problema: comunisti ma non adatti a vivere nell’Unione Sovietica! Di quanti subivano questa situazione Rafael era di sicuro la personalità più significativa. Sostanzialmente e fondamentalmente era un poeta, come ho detto, voleva esprimersi, voleva la libertà d’espressione, era l’esempio, se mai ce ne fosse bisogno, di come l’artista e la libertà fanno lega inscindibilmente. Oltretutto, Rafael aveva una vena di poesia erotica, un barocchismo erotico che contravveniva ad ogni moralismo di qualsiasi ideologia o religione. Il suo comunismo era, lo accennavo, soprattutto antifascismo.

Un uomo libero, Rafael, gran bevitore, buon mangiatore, donnaiolo sterminato, sotto gli occhi terribili di María Teresa, grande amante della musica, amicissimo di Pablo Picasso. In un viaggio che facemmo insieme sulla Costa Azzurra, Rafael andò a visitare Picasso e l’indomani dovevo andarci anch’io, Picasso non so che malore ebbe, era già vecchio. Nella sosta, credo ad Antibes, colsi un dialogo tra María Teresa e Rafael Alberti. Come ho detto Rafael non aveva denaro, viveva, con onore, in condizioni modestissime. Andando da Picasso venne a sapere che il pittore spagnolo aveva lasciato a uno dei figli una grossa somma, siamo negli anni Settanta. Rafael quando María Teresa enuncia la cifra, mi pare 900 milioni, rimane allibito e nega che sia possibile. María Teresa forse con qualche risentimento nei confronti del marito che l’ha condotta a quelle condizioni di semi povertà, lei era una nobile spagnola che abbandonò tutto per seguire Rafael, insisteva con ferocia sull’enormità della cifra e Rafael si rimpiccioliva a ogni ripetizione, pensando, suppongo, alla sua condizione. Ma la vita è davvero sorprendente nella sua continuità dissonante. Avvenne quel che il tempo fa avvenire, Francisco Franco muore, tutti gli esuli spagnoli ma anche latino-americani dopo una breve transizione tornano o vanno in Spagna. Per Rafael fu la glorificazione, divenne il poeta massimo della Spagna libera, credo venisse eletto senatore o qualcosa del genere, con un risvolto tragico, tuttavia: abbandonò María Teresa León, la fedelissima compagna nelle peripezie, la quale pare che soffrisse di demenza senile. Rafael aveva sempre amato le donne giovanissime e si sposò con una giovane donna.

Ebbe una vita lunghissima, ricca, continuò a scrivere poesie, sempre con la sua libertà barocca, immaginifica, analogie, termini pittoreschi, sesso, donne, cornucopia di libertà, gioia di vivere fino alle soglie della morte, un vero dannunziano-comunista. E non lo dico per dire: tutti gli intellettuali americani esaltavano Gabriele D’Annunzio. Finché vissero in Italia, era uno spettacolo rattristante e per taluni aspetti divertente, quella carovana di immigrati pressoché tutti comunisti che dalla Spagna e dai Paesi latino-americani venendo in Italia, finivano a casa di Rafael Alberti. Tenuto conto che da noi vi era il più gran, Partito comunista dell’Occidente comprensibile questa fluenza, che però condusse alla dissoluzione del comunismo occidentale. Infatti, i comunisti che venivano da Paesi autoritari o totalitari manifestavano una situazione assurda, fuggivano da Paesi illiberali e venivano in un Paese libero, ma erano comunisti ossia sostenitori di una concezione illiberale! Questa antitesi finì con il corromperli, giacché come potevano sostenere il comunismo se poi trovavano rifugio in un Paese non comunista! Non è che non si parlasse dell’argomento, anzi nelle discussioni, veementissime, perché sia gli spagnoli che i latino-americani tra birra, alcool e vino e politica facevano una mescolanza esplosiva, veniva alla luce quella contraddizione.

E quando si finiva con il riconoscere che in fondo trovavano libertà in un Paese non comunista era tutto un girare intorno alla questione, ma dunque la verità era quella: i comunisti esuli venivano garantiti nella loro libertà da un Paese non comunista o perfino anticomunista, almeno a livello internazionale. E moltissimi preferivano l’Italia non comunista all’Unione Sovietica. Discussioni. Quanto sacra sia la libertà lo si vedeva dai volti degli esuli, dai loro abiti, dalle loro case. Miguel Ángel Asturias Rosales era un guatemalteco gigantesco, la faccia. che sembrava una maschera maya, gli occhi enormi, il naso trapezoide, la bocca larghissima, due orecchie smisurate e delle mani che sembravano padelle. Con accanto la minima moglie Blanque, viveva scarsamente pur essendo a quanto dicevano uno dei maggiori romanzieri del Sud America. Non era uno spettacolo decente. Di colpo, Miguel Ángel Asturias Rosales ricevette il Premio Nobel, con sbalordimento di tutti noi. Ma il Premio Nobel aveva certamente delle ragioni politiche in senso ampio, Miguel Ángel Asturias Rosales divenne uomo internazionale, benestante, ma sempre affabile, e legato a coloro che gli erano stati amici nella disgrazia. Rafael, da parte sua, risentì di questo Premio Nobel: di sicuro spettava più a lui che all’amico ma continuò in quella sua spontanea e voluta gioia di vivere che copriva l’esilio e la condizione pratica.

Non è che fossero tutte persone così aperte di mente: alcuni comunisti sia italiani che latino-americani o spagnoli erano fanatici. Odiavano gli Stati Uniti a morte e ne vedevano le male azioni ovunque, in ogni colpo di stato, in ogni dittatura scorgevano manovre statunitensi. Il settarismo consisteva nel non vedere ciò che faceva l’Unione Sovietica, e se nelle discussioni qualcuno dichiarava le colpe americane ma anche quelle sovietiche sorgevano putiferi non sempre cordiali, e la sangrilla, la paella, la tortilla diventavano bevute o bocconi amari. Eravamo sul finire degli anni Sessanta, il conflitto dei Paesi democratici contro i Paesi socialisti all’apice, anche se cominciavano i primi segni di turbamento nell’area comunista. Persino da una donna come Anna Magnani, tutt’altro ambiente, se per caso vi fosse stato un Sergio Amidei, si sarebbe finito in politica e in battibecchi. In ogni caso esisteva un rigoglio culturale straordinario, tutti gli ispanici facevano capo a Rafael Alberti, da Vittorio Bodini a Dario Puccini a Ignazio Delogu, cominciava la curiosità verso quella letteratura che avrebbe poi conquistato l’Europa e il mondo con Gabriel Garcia Marquez e Jorge Luis Borges, gli scrittori brasiliani, messicani. Era l’hispanidad a parte il Brasile che fronteggiava la letteratura statunitense e francese e che strinse rapporti notevoli con la letteratura italiana. È un settore poco esplorato questo ma taluni scrittori italiani ebbero una immensa fortuna nell’area spagnola, in parte dovuta agli esuli che venivano a Roma e facevano conoscenza con Vasco Pratolini, Carlo Levi, soprattutto, ma anche con Alberto Moravia e poi Leonardo Sciascia, e per il cinema, con Pasolini.

Ripeto, è un settore poco esplorato, l’immensa fortuna dei narratori latino-americani rimedierà l’idea che solo gli Stati Uniti o la Francia facessero letteratura internazionale. Di queste personalità talune avevano fortuna, l’essere esuli da un lato sconfortava ma creava un’aureola, sicché dall’oggi al domani magari un pittore diventava celebre e vendeva a rotta di collo: il valore artistico a volte era scarso o minimo ma l’ideologia e il sostegno ideologico del partito sopperiva. Vi erano anche registi cinematografici, tra i quali uno, estrosissimo, Fernando Birri, di fantasia allucinata, deviata, umoristica; molto sperimentali questi latino-americani e, curiosamente, con scarsissima o minima tendenza al realismo nel modo socialista, anzi piuttosto surreali, metafisici. Questo per dire che i rapporti tra ideologia e arte sono assai più complicati di quanto gli ideologi vorrebbero che fossero. E che, al dunque, quasi tutti gli esuli comunisti spagnoli latinoamericani erano…anarchici, liberali, edonisti!

Rafael, pur di vivere, faceva anche, con abilità, il pittore o il disegnatore: poche linee curve, serene, e venivano figure gradevoli, semplici, che egli donava o vendeva. Una sera ci faceva guardare questi disegni, a me e a Carlo Levi, quando viene annunciato l’ingresso, nella casa di cui eravamo ospiti, di Giorgio de Chirico. Rafael è come pugnalato, raduna i fogli, li nasconde, dicendo tra sé che si vergognava di essere esposto agli occhi del Maestro, nella foga cade steso a terra diritto. Levi non fa una mossa, De Chirico entra con la solennità involontaria che lo aureolava, Rafael si alza e lo saluta dietro le spalle stringendo i suoi disegni accartocciati. Siamo stati amici, ho voluto bene a Rafael, ha scritto una prefazione a un mio libro di poesie, quel gesto di umiltà verso De Chirico di uno dei maggiori poeti del secolo scorso rivela un’epoca in cui esisteva ancora il senso dell’arte e non aveva vinto il “mercato” sulla qualità.

Aggiornato il 13 aprile 2023 alle ore 10:19