Stando agli annunci del Governo, una delle principali novità fiscali collegata alla prossima legge di bilancio consisterebbe nella modifica del meccanismo di determinazione dell’Irpef dovuta da ogni contribuente.

Roba tecnicamente complessa. Proviamo velocemente a “sminuzzarla” per capire di cosa si tratta. La riforma comporterebbe l’abbandono della progressività per scaglioni a favore della progressività lineare o continua e quindi l’eliminazione degli scalini tra l’aliquota corrispondente ad uno scaglione e quella di un altro. Ad esempio, tra lo scaglione da 15mila e fino a 28mila euro, e lo scaglione da 28mila e fino a 55, lo scalino, ora, consiste nel passaggio istantaneo del reddito eccedente 28mila euro da un’aliquota del 27 ad una del 38. Con la riforma questo brusco passaggio scomparirebbe.

Inoltre, per garantire il corretto fluire della linearità, la proposta prevede la cancellazione delle detrazioni, ad esclusione di quelle per carichi di famiglia.

La continuità della progressione, quindi, determinerebbe una crescita senza soluzione di continuità dell’aliquota fino al raggiungimento di quella massima ipotizzata al 45 per cento per i redditi superiori a 70mila euro. Infine, poiché la linearità comporta variazioni infinitesimali dell’aliquota stessa all’aumentare del reddito, il calcolo verrebbe affidato ad un algoritmo costruito su una funzione matematica, algoritmo che, come una divinità, a fine anno indicherebbe l’imposta dovuta dal singolo contribuente.

Roba cervellotica, come detto, nata in “laboratorio”, alla quale però il Governo guarda con grande interesse per poter finalmente indossare cappelli e pennacchi dagli sgargianti colori e annunciare alla folla festante una riforma fiscale epocale, la sconfitta dell’ingiustizia e la rinascita dell’economia del Paese.

Sarebbe davvero così? Ritengo di poterlo escludere. Niente di epocale, nessuna rinascita e nessuna sconfitta dell’ingiustizia. Per un numero molto consistente di redditi, specie per quelli compresi tra 20 e 30mila euro, non cambierebbe niente, la tassazione non avrebbe significative variazioni. Per i redditi più bassi, il prelievo potrebbe diminuire da pochi euro fino a 25 euro al mese, così come per quelli compresi tra 30 e 70mila. Infine, per i redditi superiori a 70mila la tassazione diverrebbe sensibilmente più pesante.

La proposta, inoltre, accentuerebbe in maniera significativa le differenze tra tipologie di redditi a parità di ammontare. Ad esempio, per un reddito di 10mila euro, se prodotto da un imprenditore o da un professionista, la tassazione raggiungerebbe il 10 per cento; se derivante da pensione, si fermerebbe al 5; se frutto di lavoro dipendente, sarebbe vicina allo zero. Si potrebbe continuare con altri esempi, ma la sostanza non cambierebbe: con la riforma i redditi d’impresa e di lavoro autonomo subirebbero un prelievo sempre maggiore di quello di altre categorie, almeno fino al raggiungimento di 100mila euro.

I numeri sono noiosi, ma hanno la “testa dura”: consentono di capire come stanno realmente le cose. Siccome però sono come sonniferi, mi fermo qui e passo ad alcune osservazioni di sistema.

Una manovra come questa non aiuta la ripresa italiana; approfondisce ingiuste disuguaglianze a danno dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo; determina l’impiego di risorse pubbliche che non avranno un significativo impatto sull’economia reale.

Chi sta guidando il Paese nel più insidioso dei tornanti della storia recente, ripete stantie politiche fiscali concentrate su sussidi ai consumi e continua a dirottare il denaro pubblico su spese improduttive, politiche che nella storia anche recente hanno già dimostrato la loro inefficacia rispetto, proprio, al raggiungimento delle finalità per le quali sono messe in pista.

Inoltre, chi sta guidando il Paese continua a perseguire con cieca ostinazione politiche di palese antagonismo alla libera iniziativa economica, considerando la ricchezza privata di mercato figlia di un dio minore. Considerazione distorta sul piano ideologico, anzitutto, ma che poi si traduce in azioni improvvide di governo.

Di questo tipo di fiscalità il Paese non ha bisogno. Piuttosto, quella che dovrebbe essere realizzata, con visione di lungo periodo e senza ulteriori attese, è una vera e propria rivoluzione fiscale che trasformi i tributi in pungoli per la produzione e l’incremento della produttività, per la ricerca, la tecnologia avanzata, gli investimenti in capitale di rischio e capitale umano. E al tempo stesso alleggerisca non soltanto il peso delle imposte, ma anche l’enorme burocrazia contabile; consenta la determinazione anticipata del reddito rispetto all’inizio dell’attività o dell’anno, in contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e con validità almeno biennale; permetta alle grandi imprese di verificare in corso d’anno, sempre in collaborazione con l’amministrazione, la congruità del reddito.

Rovesciare il sistema, questo è quello che occorre fare. Il resto sono pannicelli caldi, del tutto inadeguati a curare le profonde ferite dell’economia nostrana (se si vuole, A. Giovannini, Crescere in equità).

Aggiornato il 02 ottobre 2020 alle ore 10:51