Rivoluzionari e Conservatori

Se ripuliamo i vocaboli dall’usura del tempo del consumismo smisurato, possiamo chiamare i giovani iraniani, in piazza da metà settembre, conservatori rivoluzionari. Persone che hanno salvaguardato l’idea di libertà dei loro avi, persone che con quegli ideali stanno attuando una rivoluzione per ottenere la libertà. Sì, in Iran è in atto una nuova rivoluzione, nell’anno iranico 1401. Se il Novecento si è concluso con la rivoluzione iraniana per la democrazia, che Khomeini usurpò e che marchiò come islamica, soffocandola nell’oscurantismo, il terzo millennio prende corpo da una rivoluzione iraniana per Azadì, per la Libertà. Se il popolo ucraino con la sua resistenza ha riaffermato che l’umanità non è nulla senza la dignità, quello iraniano da più di un secolo lotta con coraggio e fantasia per affermarlo.

Il 15 novembre, anniversario della rivolta per il carovita del 2019 con migliaia di martiri, i manifestanti in Iran hanno scandito lo slogan più gridato in questo momento in tutto il Paese, “morte al dittatore!”. A Teheran e in molte altre città iraniane, negli atenei, teatro tradizionale della protesta, gli studenti hanno cantato e inneggiato alla fine del regime. Nella capitale, nelle università di Pardis e Amir Kabir, gli studenti hanno respinto le violente cariche dei basiji e continuato la loro protesta. Sebbene non sia una novità assoluta, i bazarì, i commercianti, soprattutto nel gran bazar di Teheran e in altri centri commerciali della città, hanno attuato uno sciopero anche loro dal 15 novembre, chiedendo la fine del regime liberticida. I bazarì, alleati tradizionali dei religiosi, già nell’estate 2018 avevano scioperato a Teheran, Esfahan e Tabriz, i tre più importanti centri economici del Paese, ed era la prima volta. Ora i bazarì, insieme ai ricchi e ai poveri della terra dell’Iran, invocano il rovesciamento di un regime violento, corrotto e incapace. La rivolta ormai è estesa in ogni angolo dell’Iran. Nell’occasione del 15 novembre, nella lontanissima cittadina Bandar-e Khamir sul Golfo Persico, che conta poco più di 15mila anime, vi è stata una imponente manifestazione contro la dittatura.

Considerata la drammatica situazione dell’Iran, il Dipartimento di Stato americano il 15 novembre ha dichiarato che gli Usa non sostengono i Mojahedin del popolo, la principale forza della Resistenza iraniana, e non addestrano i membri di questa organizzazione residenti in Albania. Il portavoce del Mojahedin del popolo, a Parigi, ha precisato che né gli Usa né nessun altro Governo ha appoggiato i Mojahedin del popolo che sono un movimento indipendente. Il Dipartimento, involontariamente, smentisce Ali Khamenei che più volte ha definito i Mojahedin del popolo al soldo degli americani. È curioso che qualche giorno prima delle dichiarazioni statunitensi, l’Intelligence iraniana aveva invitato chiunque a riferire se fossero stati contattati dai Mojahedin.

Sembra che il Dipartimento di Stato abbia preso sul serio l’invito del regime e in modo precipitoso, scagionandosi anche per il futuro. In realtà gli Usa, oltre ad aver dato un contributo all’ascesa di Khomeini nel 1979, anche durante la ubriacatura del “riformismo” di Khatami, nel 1997, su richiesta del regime iraniano, avevano inserito i Mojahedin-e Khalg, Mek, nella loro black list. Alla fine, e solo dopo ripetute sentenze dei tribunali americani in favore dei Mojahedin del popolo, che li riconosceva come un movimento di legittima resistenza, l’Amministrazione di Barack Obama e il dicastero di Hillary Clinton si sono dovuti inchinare alla verità e alla sentenza del Corte d’Appello degli Stati Uniti del Distretto di Columbia e depennare il movimento della Resistenza iraniana dalla lista nera del terrorismo. Quindi, fino a oggi, purtroppo, i governi americani hanno preso sempre la parte della dittatura in Iran.

Reuters ha dato la notizia, il 15 novembre, che il vice-portavoce del Dipartimento di Stato, Vedant Patel, durante una regolare conferenza stampa, rivolgendosi ai giornalisti ha detto che l’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Rob Malley, era stato a Parigi per incontrare partner francesi, tedeschi e del Regno Unito. Considerando che Malley già con l’Amministrazione di Barack Obama aveva mostrato un’affinità fuori dal comune con gli uomini della teocrazia di Teheran, la domanda è: in questo momento cruciale per l’Iran cosa cercano le potenze occidentali? In un Paese dove decine di minorenni in piazza danno la loro giovane vita per la democrazia, questo grossolano personaggio cosa cerca di combinare ancora? Vista la missione di Malley, il pensiero non può non andare alla conferenza di Guadalupe organizzata dai francesi tra il 4 e il 7 gennaio 1979. In quell’occasione, il francese Valéry Giscard d’Estaing volle convincere il primo ministro britannico, James Callaghan, il presidente statunitense, Jimmy Carter e il tedesco Helmut Schmidt ad abbandonare lo sciah Mohammad Reza Pahlavi e ad appoggiare Khomeini, e li trovò più convinti di lui. La conseguenza di quella scelta e il sostegno successivo è di fronte agli occhi di tutti.

Ora le donne e gli uomini iraniani, con un coraggio esemplare, rivendicano il diritto alla vita e alla libertà, ma le potenze democratiche non mollano. Come se la democrazia fosse appannaggio di una sola parte dell’umanità. Il regime teocratico iraniano è un corpo morto, sebbene velenoso e ancora pericoloso. Gli iraniani cercano di toglierlo di mezzo e seppellirlo, mentre le iene tentano di prendersi la loro parte. Non possediamo la sfera di cristallo, comunque non ci vuole un Nostradamus per capire che il regime teocratico di Teheran cadrà. Resta incomprensibile il motivo per cui gli Esecutivi occidentali temano che in Iran governi la sovranità popolare e continuino a prendere la parte della dittatura.  La storia recente dell’Iran lo dimostra.

Aggiornato il 19 novembre 2022 alle ore 10:42