II
POLITICA
II
Lo scaricabarile diMonti sulla riforma del lavoro
di
FEDERICO PUNZI
ochi giorni fa abbiamo ricorda-
to le parole di Draghi per smen-
tire la linea difensiva di Monti sulle
tasse, l’idea che per salvare il paese
non avesse altra scelta che aumen-
tarle. Oggi bisogna fare un altro
piccolo sforzo di memoria, rico-
struire i passaggi finali della stesura
della riforma del lavoro, per sma-
scherare un nuovo scaricabarile del
premier uscente. Il Mario Monti
che lo scorso 4 aprile presentava in
pompa magna come «storica», una
«svolta epocale», la riforma del la-
voro, è lo stesso che oggi riconosce
che «non è andata avanti abbastan-
za», scaricando la «colpa» su «un
sindacato che ha resistito decisa-
mente al cambiamento e non ha fir-
mato l’accordo che gli altri avevano
firmato».
Quella di Monti è una verità
molto parziale. È senz’altro vero
che la Cgil è il sindacato più con-
servatore e regressista, che ha op-
posto resistenza alla riforma, so-
prattutto sull’articolo 18 (come
anche gli altri sindacati), ma Monti
s’è calato le brache prim’ancora che
fosse convocato un solo sciopero o
una sola manifestazione. Ha tenuto
il punto per una decina di giorni,
ma la riforma è uscita annacquata
già da Palazzo Chigi. Il testo arri-
vato alle Camere era già un falli-
mento. Fu un aborto spontaneo del
governo.
Più che la Cgil a resistere, quin-
di, fu Monti a calarsi le brache.
Questa la lettura anche da parte dei
P
principali quotidiani del mondo fi-
nanziario internazionale, che per la
prima volta criticarono duramente
il premier proprio per il flop, la sua
«resa», sulla riforma più importan-
te per la crescita e l’occupazione. Il
Financial Times
parlò di
«appease-
ment»
, offrendo la propria home-
page allo sfogo di Emma Marcega-
glia, che definì la riforma
«very
bad»
. Ritenendo «preoccupante»
che proprio il premier avesse finito
per «annacquarla», il
Wall Street
Journal
fu costretto a rimangiarsi
in tutta fretta lo spericolato para-
gone di Monti con la Thatcher, az-
zardato solo pochi giorni prima,
proponendo un’altra analogia “bri-
tannica”, ma molto meno lusin-
ghiera: quella con Ted Heath, lo
«sventurato» predecessore conser-
vatore della Lady di ferro. Il
Wsj
aveva bocciato persino la bozza ori-
ginaria della riforma, quella che
non aveva ancora subito il veto del-
la Cgil, perché prevedeva «una mo-
difica relativamente modesta all’ar-
ticolo 18», addirittura una «small
beer» (robetta da poco, insignifi-
cante) «per un paese con i problemi
economici dell’Italia». Lapidaria, e
sarcastica, la conclusione del quo-
tidiano: «Diranno che una piccola
riforma è meglio di niente. Forse.
Ma Monti fu chiamato a fare il pri-
mo ministro per salvare il proprio
paese dal ciglio dell’abisso greco.
La riforma del lavoro è una resa a
coloro che lo stanno portando in
quell’abisso». E non a caso, una
settimana dopo il varo della rifor-
ma assistemmo al primo “Black
Tuesday” dell’era Monti: Borsa giù
del 5% e spread di nuovo oltre i
400 punti per la prima volta dal-
l’inizio di febbraio.
In quel momento, tra marzo e
aprile scorsi, la popolarità e l’au-
torevolezza di Monti erano all’api-
ce. Troppo poco era trascorso dal
suo insediamento perché i partiti
potessero sfiduciarlo, assumendosi
la responsabilità di ri-precipitare il
paese nel baratro, e lo spread era
calato in modo sensibile. Monti
avrebbe quindi potuto imporre alle
forze politiche e sociali qualsiasi
scelta di politica economica, ma de-
cise di non spendere l’enorme ca-
pitale politico personale che aveva
accumulato. Perché?
In un primo momento il pre-
mier difese la bozza uscita il 23
marzo dal confronto con le parti
sociali, dichiarando «chiuso» l’ar-
gomento articolo 18. Poi smentì se
stesso, accettando il passo indietro.
Ma fu davvero così decisivo il veto
della Cgil, o furono altre conside-
razioni, di natura politica, a pesare?
Secondo il
Financial Times
, dalla
sua visita in Asia il premier dedusse
che a preoccupare gli investitori era
più l’instabilità politica che riforme
non proprio incisive. Nel frattempo,
le resistenze della Cgil erano state
fatte proprie dal Pd, e probabilmen-
te il Quirinale giocò un ruolo deci-
sivo nell’ammorbidire le posizioni
del premier, proprio con l’argomen-
to della stabilità politica della “stra-
na coalizione”. Un testo più corag-
gioso nel superamento dell’articolo
18 rischiava di spaccare il Pd sul
sostegno al governo, o quanto me-
no di pregiudicare l’ipotesi di una
collaborazione futura tra il profes-
sore e il centrosinistra, scenario ca-
ro al capo dello Stato. Il Monti po-
litico prevalse sul Monti
economista, anteponendo un dise-
gno politico per il post-elezioni del
2013 all’agenda riformatrice che il
suo governo era stato incaricato di
attuare.
È allora che furono poste le basi
dei buoni rapporti tra il premier e
Bersani che domani, dopo il voto,
renderanno possibile un accordo di
governo. L’articolo 18, invece, do-
veva offrire l’occasione per costrin-
gere il Pd a decidere una volta per
tutte tra linea riformista o camus-
siana. Male che fosse andata, il si-
stema politico si sarebbe potuto
scomporre/ricomporre attorno al-
l’asse delle riforme, tra un “partito
Monti” e un “partito Grecia”.
Adesso, invece, Monti è obbligato
ad accordarsi col “partito Grecia”.
Peccato che una coalizione tra cen-
tristi e un Pd a trazione Cgil può
partorire solo topolini come la ri-
forma del lavoro.
Casa, la“exit strategy”di Finco (Confindustria)
e il siderurgico oggi paga altri
20mila operai in disoccupazio-
ne, di contro nell’edilizia cala
dell’80% il fatturato, superando
anche i settori auto, sanità, orto-
frutticolo e manifatturiero. La via
intrapresa potrebbe essere senza ri-
torno, e la politica tutta lo sa bene,
anche se in tanti (ovviamente del
palazzo) confidano che l’italiana
arte d’arrangiarsi metta ancora una
volta una pezza al sistema. Speran-
za che s’infrange contro l’iceberg
d’un sistema bancario che, per ac-
clarata incertezza politica, non in-
tende investire più nemmeno un eu-
ro per tutto il 2013. Una minaccia
destinata a sciogliersi dopo le con-
sultazioni elettorali? Non ci sembra.
Infatti piccoli artigiani e commer-
cianti starebbero già supplendo con
autofinanziamenti: ovvero accan-
tonare eventuali soldi a nero per
superare la crisi, ed in barba ai cani
“anti-banconota” da poco in uso
alle Fiamme gialle. Ma ecco che un
progetto di ripresa viene indirizzato
alla classe politica (al palazzo) da
F.In.Co.: struttura associativa nata
nel 1994, ovviamente è una “fede-
razione nazionale di settore” di
Confindustria, rappresenta le indu-
strie dei “prodotti-impianti-servizi
ed opere specializzate” per le co-
struzioni, quell’edilizia tanto basto-
nata da leggi che vorrebbero mat-
tone e cemento all’indice.
Ma Finco è per «il rilancio so-
stenibile dell’economia attraverso
il settore delle costruzioni».
«La prima proposta consiste nel
trasformare le agevolazioni volu-
S
metriche per la sostituzione urbana
(“Abbattere per Ricostruire”) da
temporanee in permanenti, innal-
zando il tenore delle medesime al
50% e riservandolo alle sole ope-
razioni di sostituzione urbana –
spiegano da Finco - Essa dovrebbe
riguardare anche i manufatti indu-
striali e commerciali, oltre a quelli
residenziali, nonché essere estesa
alla “riqualificazione sismica”, poi-
ché il territorio è la nostra prima
infrastruttura e costituisce una ri-
sorsa limitata: a questo proposito
la Comunicazione 571 del 2011 in-
dica che nel 2050 dovrà cessare
l’occupazione dei terreni, a neces-
sità ed urgenze occorrerà rispon-
dere attraverso l’edilizia industria-
lizzata.
L’innalzamento
dell’agevolazione per l’abbattimen-
to e la ricostruzione facilita gli in-
terventi di riqualificazione nelle
aree urbane degradate o periferiche.
Questa è la via, oltre ai “Piani Cit-
tà” di limitata dotazione comples-
siva sia dal punto di vista econo-
mico che strategico, per rendere
vivibili le nostre periferie e conse-
guire significativi risparmi energe-
tici».
Secondo Finco la seconda pro-
posta verte sulla «stabilizzazione
del bonus del 55% per la riqualifi-
cazione energetica degli edifici al
2020». Ovviamente si dovrebbe di-
stinguere la detrazione a seconda
del periodo di ammortamento scel-
to dal contribuente: 50% per 3 an-
ni, 55% per 5 anni, 60% per 10
anni, garantendo comunque il 60
- 75% di detrazione, laddove la ri-
qualificazione energetica sia asso-
ciata a quella sismica e indipenden-
temente dalla tempistica. La terza
proposta riguarda l’Ecoprestito: La
direttiva 2010/31/Ue sulla presta-
zione energetica nell’edilizia, facen-
do seguito alla Direttiva
2002/91/Ce sul rendimento ener-
getico nell’edilizia, stabilisce che,
entro il 31 Dicembre 2020, tutti gli
edifici di nuova costruzione siano
edifici a energia quasi zero. E che
a partire dal 31 Dicembre 2018 gli
edifici di nuova costruzione occu-
pati da enti pubblic,i e di proprietà
di questi ultimi, siano caratterizzati
dagli stessi requisiti.
Nel nostro Paese la possibilità
di espandere il margine di efficien-
tamento energetico è grande (at-
tualmente solo il 2% degli edifici
appartiene a classi energetiche su-
periori alla C); ciò sia nell’ottica di
ridurre la dipendenza energetica
dall’estero, ma anche per migliorare
i costi energetici ed il comfort abi-
tativo, al fine di perseguire, nell’am-
bito dell’attività realizzativa, il con-
cetto di Smart Building, ovvero di
costruzioni progettate, collocate,
costruite e gestite ottimizzando tut-
te le risorse a disposizione.
Per Finco è auspicabile «un ruo-
lo della Cassa depositi e prestiti
(che sarebbe bene avesse un ruolo
un po’ meno ondivago di politica
industriale e un po’ più di concreto
supporto alle PMI) a copertura di
un Fondo di Garanzia per rassicu-
rare gli istituti bancari in questa
operazione».
La quarta proposta riguarda
l’attuazione delle misure contenute
nell’ipotesi di decreto elaborato da
Finco “Per un’Italia più bella e più
sicura”. La quinta misura riguarda
«la maggioranza necessaria per at-
tuare le misure di abbattimento e
ricostruzione con premio volume-
trico in sede di condominio, qua-
lora si vogliano mettere in cantiere
opere che vadano nel senso dell’ef-
ficienza energetica e della riqualifi-
cazione sismica».
La sesta consiste nel confermare
ed ampliare le categorie merceolo-
giche cui applicare la detassazione
degli utili reinvestiti, comprendendo
anche i beni strumentali per le co-
struzioni ( ad esempio quelli non
presenti nel codice Ateco 28 come
i beni provvisionali).
Al settimo punto c’è la «certifi-
cazione e la cessione dei crediti»,
concernenti gli appalti di lavori, ser-
vizi e forniture, che dovrebbe essere
ampliata e resa sempre possibile in
seguito all’erogazione della presta-
zione, «o alla fornitura del bene e/o
servizio da parte dell’operatore»,
puntualizza Finco.
L’ottava proposta fa riferimento
alla manutenzione: è certamente
importante, ed è stato ampiamente
riconosciuto, analizzato e normato,
l’apporto che le infrastrutture, du-
rante tutto il loro ciclo di vita, pos-
sono dare al rilancio dell’economia
del Paese. Finco pensa alle manu-
tenzioni dei beni demaniali, per i
quali si renda urgente l’intervento
per motivi di sicurezza, per la con-
servazione o per non arrecare danni
a terzi. La nona torna e sollecita
analoghi meccanismi al punto pre-
cedente, ovvero interventi per la
«manutenzione del patrimonio ar-
tistico architettonico e per i beni
artistici e culturali».
Al decimo e ultimo punto una
sorta di “Assicurazione del Territo-
rio”, e per le parti di competenza
del cittadino. Una proposta obbli-
gatoria di carattere assicurativo ob-
bligatorio, già esistente in altri paesi
e riguardante i privati: le opere ubi-
cate in zona a rischio non potreb-
bero più essere costruite. Soprat-
tutto una gestione del territorio
fondata sul
“Risk Management”
eliminerebbe il degrado e respon-
sabilizzerebbe tutti i cittadini. Non
è un mistero che nelle economie di
Usa e Nord Europa c’è da decenni
l’obbligatorietà che ogni individuo
s’assicuri da danni ad individui, co-
se e patrimoni pubblici e privati.
Gli unici non coperti sono i senza
tetto, ampia la letteratura e la fil-
mografia in argomento.
RUGGIERO CAPONE
L’OPINIONE delle Libertà
VENERDÌ 25 GENNAIO 2013
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