Nell’attuale escalation politico-mi-
litare relativa alla crisi in Mali, di-
stricarsi tra le “dichiarazioni” e le
“azioni” concludenti dei Paesi oc-
cidentali non è facile. Come al so-
lito e come si insegna in geopoliti-
ca, va individuata, nel groviglio
delle iniziative diplomatiche e degli
interventi militari, la direzione stra-
tegica verso la quale la comunità
internazionale intende avvisarsi per
risolvere o quantomeno rendere fi-
siologica la situazione in quella
martoriata regione dell’Africa.
«Le nostre informazioni indi-
cano che i terroristi potrebbero at-
taccare Bamako (ndr: capitale del
Mali)»: lo ha detto il capo degli af-
fari politici dell’ Onu, Jeffrey Fel-
tman, durante una riunione del
Consiglio di Sicurezza sugli ultimi
sviluppi della crisi. Feltman ha an-
che affermato che, al 20 gennaio,
855 caschi blu della missione “Afi-
sma” sono stati dislocati alle fron-
tiere del Paese africano.
Anche in relazione a queste di-
chiarazioni, il Giappone ha deciso
martedì la chiusura temporanea
della sua ambasciata a Bamako.
Intanto, un piccolo team di sol-
dati delle forze speciali britanniche
è già operativo in Mali, per coor-
dinare e fornire indicazioni alle
truppe francesi. Lo riferiscono fonti
citate dal quotidiano britannico
The Guardian, precisando pruden-
temente che, al momento, i soldati
non sono impegnati direttamente
nei combattimenti. La Gran Bre-
tagna, secondo quanto si è appre-
so, si sta anche preparando ad aiu-
tare la Francia con aerei da
ricognizione, giù utilizzati nel 2011
in Libia. Gli aerei hanno radar ad
alta risoluzione, e aiuteranno i jet
francesi a individuare e colpire le
posizioni nemiche. Due aerei da
trasporto C-17 sono inoltre già a
disposizione delle truppe francesi.
Gli Stati Uniti, dal canto loro,
stanno fornendo, per adesso, sup-
porto logistico alle truppe francesi,
mentre da parte russa, i servizi di
trasporto di truppe e materiale alla
Francia e ad altri Paesi impegnati
nelle operazioni in Mali saranno
forniti solo da compagnie aeree
private. Lo ha precisato, sempre ie-
ri, il ministro degli Esteri russo Ser-
gej Lavrov, spiegando che la deci-
sione spetta alle stesse compagnie.
A detta del ministro, la notizia sul-
la volontà di Mosca di “fornire
strumenti di trasporto” all’esercito
francese è nata da un “fraintendi-
mento”. Ad annunciare l’ offerta
russa era stata la stampa francese,
citando il capo della diplomazia di
Parigi, Lauren Fabius. Prudenza in-
somma, tanta prudenza.
E l’Italia? «Non abbiamo allar-
mi specifici né segnalazioni di cri-
ticità per quanto riguarda l’Italia
e l’Europa. Ma la guardia resta evi-
dentemente alta: abbiamo molti-
plicato
l’attenzione per la sicurezza».
Lo dice il direttore del Dipartimen-
to delle informazioni per la sicu-
rezza (Dis), ambasciatore Giam-
piero Massolo, lasciando palazzo
San Macuto, al termine dell’audi-
zione in Copasir sulla situazione
in Mali.
«Abbiamo coscienza di quanto
la situazione sia difficile - rimarca
il direttore del Dis - e di quanto gli
interessi degli occidentali, e quindi
anche italiani, possano trovarsi a
rischio per effetto di movimenti
dello jihadismo estremo».
LUCA ALBERTARIO
II
ESTERI
II
La Corea del Nord testa i nervi di Usa e Cina
di
STEFANO MAGNI
il momento della terza crisi nu-
cleare con la Corea del Nord.
Dopo i test del 2006 e del 2009, il
regime di Pyongyang annuncia un
prossimo esperimento atomico sot-
terraneo. Immagini satellitari ame-
ricani rileverebbero preparativi in
corso già da dicembre.
La dinamica a spirale di quest’ul-
timo braccio di ferro ricorda molto
da vicino le due crisi precedenti. Pri-
ma la Corea del Nord provoca, poi
l’Onu risponde, infine il regime “ere-
mita” effettua il suo test nucleare,
la minaccia peggiore possibile. Fi-
nora, a questa escalation sono se-
guiti mesi di tensione, ulteriori san-
zioni e infine un certo rilassamento
delle relazioni. Fino alla provoca-
zione successiva. L’ostilità, in que-
st’ultimo caso, è iniziata a dicembre,
con il lancio, a sorpresa, di un mis-
sile a lungo raggio Taepo-dong 2.
Pyongyang lo ha definito un espe-
rimento “pacifico”, volto solo a
mandare in orbita un satellite per
le telecomunicazioni. Corea del Sud,
Giappone e Stati Uniti, però, hanno
mangiato la foglia: lo stesso Taepo-
dong 2 è un missile balistico inter-
continentale a tutti gli effetti. Dun-
que, testandolo, i nordcoreani non
hanno solo mandato un “oggetto”
in orbita, ma hanno sperimentato,
nella pratica, una possibile arma da
impiegare contro il territorio degli
Stati Uniti. Da qui a dire che gli Usa
siano già sotto la minaccia nordco-
reana, ce ne passa: prima di mettere
a punto un missile balistico inter-
È
continentale pienamente operativo,
i comunisti coreani hanno ancora
bisogno di anni di test e sviluppo
tecnologico. Ma, da un punto di vi-
sta americano, è comunque meglio
mettere le mani avanti e prevenire
il pericolo quando è ancora control-
labile.
L’amministrazione Obama, sin
da dicembre, ha dunque agito at-
traverso l’Onu per imporre nuove
sanzioni a Pyongyang. E gli Usa so-
no riusciti ad ottenere almeno una
parte di quello che chiedeva: con
voto unanime (Cina inclusa), il Con-
siglio di Sicurezza ha approvato un
compromesso fra la linea dura ame-
ricana e la linea morbida cinese.
Quel che è passato, martedì, è nuo-
vo pacchetto di misure restrittive
contro l’agenzia spaziale nordco-
reana, una banca, alcune imprese
commerciali e quattro personalità
economiche del “regno eremita”. È
stata sanzionata la Banca della Terra
d’Oriente, accusata di aggirare le
sanzioni già in vigore e di mantenere
contatti con istituti creditizi iraniani,
a loro volta sanzionati. Le imprese
colpite sono la Kumryong Trading
Corp., la Tosong Technology Tra-
ding Corp., la Korea Ryonha Ma-
chinery Joint Venture Corp. e la
Leader International, tutte accusate
di aver fornito la tecnologia neces-
saria al test incriminato. Le perso-
nalità nordcoreane colpite non sono
alti dirigenti dello Stato, ma perso-
nalità direttamente legate al pro-
gramma missilistico e nucleare.
L’Onu promette “azioni più dure”
in caso di futuri test nucleari. L’im-
patto di queste sanzioni, all’atto pra-
tico, potrebbe risultare insufficiente
a fermare i programmi nordcoreani.
«È solo un piccolo schiaffo sulla
mano», secondo un analista di Seul,
Kim Yong-hyun. Ma è il valore po-
litico della nuova risoluzione Onu
che dovrebbe preoccupare il giovane
leader Kim Jong-un: la Cina ha vo-
tato a favore delle sanzioni. E non
è cosa da poco. Il regime di Pechino
è l’unico sostegno vitale (economico,
oltre che diplomatico) rimasto al re-
gno eremita. È solo grazie alla Cina
e ai suoi rifornimenti che arrivano
dal confine settentrionale, che la Co-
rea del Nord può sfamarsi, avere il
carburante minimo indispensabile
e mantenere un piedi un esercito an-
cora degno di rispetto. Negli Stati
Uniti, sia l’amministrazione Bush
che la successiva di Obama, hanno
puntato molto sul ruolo della Cina,
con più o meno successo. È solo Pe-
chino che può ottenere il rispetto di
Pyongyang.
Come da copione, però, la prima
risposta di Kim Jong-un alle sanzio-
ni è un’ulteriore provocazione. L’an-
nuncio del nuovo test nucleare sot-
terraneo potrebbe mettere a dura
prova anche lo stesso ruolo della
Cina. Adesso che Pechino ha già ap-
provato un primo round di sanzio-
ni, potrebbe spingersi oltre e votare
una risoluzione più dura, all’Onu,
a test avvenuto? O la Repubblica
Popolare giocherà ancora il ruolo
di unico protettore del regno eremi-
ta? Nel primo caso, una mossa trop-
po dura del regime cinese potrebbe
minarne la credibilità interna, mo-
strando “arrendevolezza” nei con-
fronti degli Stati Uniti. Nel secondo,
invece, verrebbe sminuita la sua cre-
dibilità internazionale, soprattutto
agli occhi degli altri membri del
Consiglio di Sicurezza. Più che te-
stare le proprie armi atomiche, in-
somma, Kim Jong-un sta già testan-
do la pazienza degli alleati cinesi.
È una prova difficile pure per gli
Stati Uniti, anche se la posta in gio-
co è diversa. Non è ancora in ballo
la sicurezza nazionale. Per ora non
c’è alcuna minaccia imminente che
richieda una reazione militare. Co-
me già detto, passeranno ancora al-
tri anni prima che il territorio nor-
damericano finisca seriamente nel
mirino dei nuovi missili nordcorea-
ni. Per ora è comunque in gioco la
credibilità del deterrente degli Stati
Uniti. E non è certo un problema
nuovo. Sin dalla fine della Guerra
Fredda, come sostiene l’esperto di
strategia James Jay Carafano (He-
ritage Foundation), gli Usa non han-
no una chiara strategia nucleare. Il
bipolarismo aveva permesso di sta-
bilire alcune regole del gioco: nes-
suna delle due superpotenze avrebbe
dovuto avere la possibilità di iniziare
un conflitto atomico. La capacità di
sopravvivere e prevalere in un con-
flitto nucleare prolungato (come
teorizzato da Herman Kahn) o
l’abilità di annientare il nemico an-
che con le sole forze sopravvissute
a un suo primo colpo (Mutual As-
sured Destruction) avrebbero co-
munque dissuaso l’avversario dal
compiere la prima mossa. Negli ul-
timi vent’anni, però, qualsiasi regola
è stata messa in discussione. Nessu-
no conosce quale sia, realmente, la
dottrina di impiego delle armi nu-
cleari della Corea del Nord. Nessu-
no può prevedere quale sia quella
dell’Iran, se dovesse dotarsene. Nes-
suno può mettere la mano sul fuo-
co che queste nuove potenze ato-
miche siano razionali quanto lo
sono state Usa e Urss a suo tempo.
Ed è già molto alto il numero di
potenze nucleari “indipendenti”,
che sfuggono alla vecchia logica del
bipolarismo, come Israele, India,
Pakistan, Cina e anche la stessa
Francia. Per non parlare della pos-
sibilità che qualche ordigno atomi-
co finisca nelle mani di un gruppo
terrorista. Il “deterrente” non è più
una garanzia di sicurezza. Specie di
fronte a schegge impazzite, come il
regime di Pyongyang.
Bengasi è a rischio
laClinton ha fallito
Mali, gli aiuti alla Francia
e la prudenza dei suoi alleati
Il solo annuncio di un
test nucleare sotterraneo
di Pyongyang è una sfida
alle grandi potenze
Dalla fine della Guerra
Fredda in poi, gli Usa
non hanno una chiara
strategia di deterrenza
sudditi britannici hanno ricevuto
l’ordine di evacuare Bengasi. A
cinque mesi dall’uccisione dell’am-
basciatore americano Christopher
Stevens (11 settembre 2012), la mi-
naccia per gli occidentali nella se-
conda città libica, non solo resta
alta, ma è in crescita. Prova ne è
anche il fallito attentato al console
italiano, Guido De Sanctis, il 13
gennaio scorso. Il nostro diploma-
tico è sopravvissuto solo grazie al-
l’ottima blindatura della sua auto
di servizio. Ieri, il Foreign Office ha
emesso l’allarme per gli inglesi in
seguito a “imminenti e specifiche
minacce” provenienti dalla galassia
jihadista libica. Sin da settembre, il
ministero degli Esteri di Londra av-
verte i sudditi di evitare di recarsi
a Bengasi e in buona parte della Li-
bia. Dopo l’inizio dell’intervento
francese in Mali e la crisi degli
ostaggi in Algeria, la minaccia di
attentati o rapimenti ai danni di cit-
tadini occidentali a Bengasi è di-
ventata “imminente” e “specifica”.
È la peggior smentita a quanto
detto da Hillary Clinton, messa sot-
to pressione da Camera e Senato
nelle sue audizioni al Congresso sui
fatti di Bengasi dell’11 settembre.
La Clinton, ormai in uscita dal Di-
partimento di Stato, ha cercato di
difendersi affermando di aver fatto
quanto possibile per garantire la si-
curezza dei cittadini americani. Tut-
tavia, come le ha fatto notare il se-
I
natore John McCain, non ha rispo-
sto a una serie di domande. Non
solo restano misteriosi i dettagli sul-
la non-reazione americana in
quell’11 settembre (come è possibile
che, per 7 ore, una sede diplomatica
americana sia rimasta sotto attac-
co? Quali sono state, in quelle 7
ore, le reazioni alla Casa Bianca?
Perché la sicurezza non era stata
rafforzata, nonostante le avvisaglie
dell’attacco fossero ben chiare?),
ma è un mistero la stessa politica
americana in Libia. Come è possi-
bile, infatti, che la situazione di Ben-
gasi sia sfuggita di mano fino a
questo punto, dopo meno di un an-
no dall’intervento militare statuni-
tense a favore della rivoluzione
contro Gheddafi? Le milizie jiha-
diste sono ancora padrone del cam-
po. Abu Khattala, il principale so-
spettato per l’attacco dell’11
settembre, è ancora a piede libero.
L’unico uomo in arresto è il regista
(americano) di un video amatoriale
su Maometto, accusato di aver “fo-
mentato l’odio”. Possono agire
contando sull’attiva o passiva col-
laborazione delle fragili autorità lo-
cali. Ancora adesso, a cinque mesi
dall’attacco al consolato americano,
sono ancora in grado di minacciare
tutti gli occidentali in Libia. Ci sia-
mo allevati una serpe in seno. Se
questo non è un eclatante fallimen-
to di politica estera…
(ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
VENERDÌ 25 GENNAIO 2013
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1,2,3,4 6,7,8