Fermi compagni! Il Tav è di sinistra

È la notte tra sabato 21 e domenica 22 luglio e, come ormai d’abitudine, ai cantieri de La Maddalena di Chiomonte del Tav Torino – Lione s’accendono i soliti scontri tra attivisti e forze dell’ordine. Lanci di pietre, oggetti contundenti d’ogni tipo, petardi e bombe carta da un lato; idranti e lacrimogeni dall’altro. Insomma, “ordinaria” amministrazione. Feriti, nel corso dei tafferugli, undici agenti di polizia tra cui il capo della Digos, Giuseppe Petronzi. L’ennesima battaglia della Val di Susa si presta a un nugolo di considerazioni.

Tuttavia, a balenare nelle nostre menti v’è anzitutto un ineluttabile quesito. Premessa: anche un neofita delle scienze economiche comprende, in toto, il principio secondo cui il Treno ad alta velocità, come qualsiasi genere di progetto infrastrutturale, non rappresenta altro se non Keynes. Esatto, John Maynard Keynes: interventi pubblici per garantire la maggior occupazione e, dunque, per aumentare il Prodotto interno lordo. Ora, una maggior presenza dello stato nell’economia non è proprio una delle richieste portate avanti – con ogni mezzo, occorre dirlo – da quell’agglomerato di forze politiche e sociali contigue alla protesta di parte dei Valsusini? La risposta, al riguardo, non può che essere in re ipsa: sì. Più stato? Eccovi serviti. Una linea ferroviaria, nulla più. Investimenti pubblici: più lavoro, più consumi. In altre parole, più crescita.

A torto o a ragione, sia chiaro. Ed appare agghiacciante l’idea secondo cui, da un anno a questa parte, gli incappucciati abbiano più volte attaccato gli operai dei cantieri al grido di “krumiri” e la polizia abbia dovuto difendere dagli assalti chi, in modo eufemisticamente legittimo, vorrebbe (e dovrebbe) esclusivamente lavorare. Inoltre, i più attenti osservatori non potranno non ricordare, nel corso dei mesi, i numerosi report dei liberisti “duri e puri” dell’Istituto Bruno Leoni volti a porre all’attenzione dei lettori le “ragioni liberali del no” all’opera, tanto per citare un pdf a cura di Andrea Boitani, Marco Ponti e Francesca Ramella e consultabile gratuitamente sul sito del think-tank.

E allora, bene la sempre vecchia e cara repressione per chi, da anni, usa violenza e strumentalizza questo o quel teatro per ottenere visibilità e portare avanti un’assurda guerra contro chicchessia. Non si tratta, però, di una questione di carattere politico, bensì culturale. Soprattutto culturale. Vero, al Teatro Valle Occupato parrebbe sventolare fiera la bandiera keynesiana. Ma a targhe alterne, e non in Val di Susa. 

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:04