Le parole d’ordine dei nuovi giustizialisti

Battesimo per il “Movimento Arancione”, mercoledì scorso al teatro Eliseo di Roma. Obiettivo politico del medesimo, la creazione di una lista in grado di riappropriarsi di una discreta fetta di elettorato di sinistra, ora appiattitasi su posizioni bersanian-vendoliane, e di raggiungere così il 4% dei consensi. Ovvero, il quorum necessario per entrare in Parlamento. 

La piattaforma politica del movimento è presto detta. Basta ascoltare le parole dei due principali animatori: Antonio Ingroia e Luigi De Magistris. Il primo, in collegamento telefonico dal Guatemala – in loco a capo di un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico su incarico delle Nazioni Unite, ndr – ha tenuto a ribadire quanto ci sia bisogno, per il futuro più immediato, «di un atto di coraggio e di responsabilità verso il paese». E ancora: «La parte sana deve salvarlo – il paese – e io sarò con voi».

Da De Magistris, invece, chiarissimi segnali del plot della campagna elettorale all’arancione. Meglio, degli avversari da combattere. Due nomi su tutti: il fondatore de La Repubblica Eugenio Scalfari e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Tema dello scontro, il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato ex art. 134 della Costituzione, in merito alla vicenda delle telefonate intercettate dalla procura di Palermo tra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, a proposito della presunta trattativa stato-mafia dei primi anni Novanta. Diatriba istituzionale conclusasi, qualche giorno or sono, con la vittoria della linea del Colle e la conseguente immediata distruzione di quei nastri disposti dalla Corte. 

Scalfari, nel corso dei mesi, s’è caratterizzato per la difesa a spada tratta delle ragioni del Quirinale. Non da ultimo, con l’editoriale del 5 dicembre scorso, dal titolo “Le ragioni del diritto”. Sul punto, il sindaco di Napoli è categorico: «Se Scalfari definisce eversivo uno come Ingroia, allora io sono eversivo, scelgo di stare con lui e con i magistrati palermitani come Vittorio Teresi e Nino Di Matteo e non con chi ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale per evitare che si faccia luce sulla trattativa tra Stato e mafia». Perché quei magistrati, è sempre De Magistris a parlare, «sono entrati in una stanza buia del potere, hanno cominciato ad accendere qualche lampadina. Ma chi doveva aiutarli, intendo chi doveva dire “ti do una mano, perché sono delle istituzioni”, ha invece staccato la spina». 

Peccato la quaestio, sul piano giuridico, sia un po’ più complessa rispetto alla semplificazione adottata da De Magistris. Perché Napolitano, con il suo ricorso alla Consulta, non ha in alcun modo voluto oscurare le indagini della procura di Palermo sulla presunta trattativa stato-mafia, bensì ha semplicemente posto all’attenzione della Corte un quesito di assoluta rilevanza: quale lo status giuridico delle intercettazioni telefoniche, sia pure indirettamente, acquisite da una procura della Repubblica che coinvolgano il presidente della Repubblica? La Corte ha deciso. Delibera opinabile, certo. Ma affatto volta a ostacolare il lavoro dei pm palermitani. 

Tant’è, però. Napolitano è un avversario. Anzi, l’avversario. Per informazioni, chiedere a Sonia Alfano, parlamentare europea dell’Idv: «Mi auguro presto sarà eletto un capo dello Stato degno del suo nome», l’inequivocabile j’accuse nei confronti del settennato di Napolitano. Avversario, dunque. Assieme al centrosinistra del post-primarie. 

Insomma, chiaro è il tentativo di Ingroia e De Magistris di scardinare la weltanschauung bersaniana. Di scardinare quel progetto politico di alleanza elettorale con la sinistra di Vendola e di apertura al centro di Casini (e di Monti?) dopo il voto. Sperano in ogni modo di sottrargli voti, a Bersani. E di parlare a quello zoccolo duro giustizialista – e di sinistra? – orfano dell’ormai astro decadente dipietrista, ma troppo politico per fiondarsi verso lidi grillini. Riusciranno, i nostri “eroi”? A oggi sembra assai arduo. Superare lo sbarramento appare impresa proibitiva. Però chissà, magari quell’elettorato si ricompatta, di fronte a dette parole d’ordine. Alle europee del 2009, ad esempio, Di Pietro prese l’8%. Staremo a vedere.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:41