Il Paese da populista   a responsabile

Gli italiani non hanno mai amato lo Stato vedendo in esso un nemico da ingannare, raggirare e frodare – da qui clientelismi grandi e piccoli sino ad arrivare a mafie e camorre – e l’hanno sempre sfruttato per “sistemarsi” a suo carico. L’idea dello Stato in Italia è sorta su un sostanziale populismo, ovvero si è imperniata sulla dipendenza e sul dominio da un capo che, ossequiato, è usato a vantaggio del proprio particulare. È stato così in tutto il continente europeo dove, già dal dopoguerra, essendo un ammasso di rovine materiali e civili, nessuno aveva né il tempo né la voglia di occuparsi di questioni collettive, a meno che non incidessero direttamente sulla propria condizione, della propria famiglia o di ciò che di essa ne restava.

I Paesi d’Europa erano usciti dalla guerra quasi tutti perdenti – l’Italia così come la Germania, la Grecia, i Paesi Bassi, la Scandinavia, la Polonia, la Serbia – tranne la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, e una Francia in cui, grazie a Charles De Gaulle, non si era ceduto al nazismo. La Russia era sotto Stalin. E i movimenti di resistenza partigiana in Italia, scoordinati tra loro, sono stati di fatto una minoranza. I partiti hanno rappresentato – forse come oggi – masse ideologizzate dal comunismo e dall’anticomunismo capeggiate allora da ristrette élite di potere e con a capo un unico leader che ha rappresentato o forze politiche sovvertitrici, o conservatrici. I partiti sono stati lo specchio delle classi sociali esistenti: operai, agricoltori, impresa, capitale internazionale, artigiani, professionisti, docenti. Tutti con referenti come Alcide De Gasperi per l’Italia moderata e cattolica, Palmiro Togliatti per quella comunista, Pietro Nenni per l’Italia socialista e Ugo La Malfa per l’Italia repubblicana. Vi era dialettica nei partiti politici? Pochina.

Dopo la scarsa dialettica e l’esiguo confronto, la classe dirigente – peraltro alquanto sparuta – si allineava al leader, pur con proprie, eventuali riserve. Con ciò voglio dire che l’Italia è stata sempre sedotta e in un certo qual modo succube de “l’illusionista” di turno, prestigiatore spesso più utile a sé stesso che agli altri perché incapace di tradurre il potere in strumento per la realizzazione del bene del Paese. E, grazie all’allineamento ossequioso al capo, ci si è “riempiti la pancia” depredando lo Stato. Ancora oggi, come allora, si spera nel leader prestigiatore che, preso il potere, si osanna, con la speranza che sia in grado di dispensare prebende o anche solo cibo in nome dello Stato inteso a quel modo. Ma lo Stato oggi è esangue, e non più in grado di elargire granché, almeno non quello che, da cinquant’anni a questa parte, con il “giochino” dell’accrescimento del debito pubblico, è stato in grado di dare.

Cosa fare allora? Bisogna che l’Italia si converta. È venuto cioè il tempo di aprire lo Stato italiano al mercato, di funzionalizzarlo a esso. Dalla mentalità populista e anticapitalista, fondata erroneamente oggi come in passato, sul concetto in base a cui la redistribuzione – pianificata dagli statalisti, su criteri da essi dettati, ovviamente – funzioni meglio di una “mano invisibile” del mercato, bisogna trasformare e sostituire l’intero sistema autoritario e centrista in un libero mercato efficiente, tenuto presente che la realtà sfugge ai modelli e i meriti non rispondono a criteri oggettivi, dato che è più importante avere qualcosa da scambiare, e sapere rispondere alle esigenze altrui, contribuendo al benessere sociale. Non avere paura del capitalismo e orientare quanto più possibile lo Stato italiano al capitalismo dando quanto più spazio possibile alla borghesia produttiva, all’impresa, al capitale.

Questa è l’unica maniera di raggiungere l’obiettivo del bene comune – capitalismo sociale – per dismettere progressivamente le vesti dello statalismo e fare funzionare la macchina statale privatizzandola. Se non lo faremo noi, questo cambio di impostazione dell’idea stessa di Stato, saranno i fatti a cambiarla. Gli italiani tengono fondamentalmente solo al proprio. Si guardino da ultimo le rilevazioni circa il pagamento delle sole multe stradali, esemplificative di un’Italia che, allo stesso modo, pagherà le tasse, contribuendo alla regolarità della politica fiscale italiana (si pagano molto a Treviso, Rovigo, Venezia, Milano, Torino, Pavia, Brescia, Parma, Bologna, Pisa, Firenze, Roma, e poco a Gorizia, a Reggio Calabria, Barletta, Enna, Fermo, Crotone, Nuoro, Taranto, Isernia, Caserta). Tutto ciò che è collettivo, è depredato.

Dunque l’unica via di sviluppo e di crescita è nella responsabilità che è data dal mercato. L’assottigliarsi dello Stato comporterà l’abbassamento della contribuzione fiscale, una giustizia implementativa dei modi alternativi di risoluzione delle controversie in grado di rendere il Paese attrattivo per le imprese e gli affari in generale – non respingente come è adesso – una pubblica amministrazione decentrata e snella in grado di garantire i soli servizi essenziali. Una centralità del mercato dei capitali e del sistema bancario nei quali il credito sia dinamico e in grado di accompagnare il business nel mondo, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Canada. Bisogna usufruire e godere dei vantaggi che offre il mercato globale e, lungi dal disprezzare il capitalismo come si fa in Italia, deve essere perseguito, rincorso, “centrato”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17