De Luca, un processo   costato anche troppo

Come avevo auspicato e pronosticato, Erri De Luca, accusato di istigazione a commettere reati, per aver dichiarato che il progetto della Tav va sabotato, è stato assolto con la più ampia delle formule: perché il fatto non sussiste. Ciò significa che, al di là di ogni possibile accusa, il fatto a De Luca contestato non esiste dal punto di vista ontologico-giuridico, ragion per cui era ben difficile che l’accusa potesse sperare di riuscire a spuntarla. Questa assoluzione genera comunque tre diverse conclusioni. Innanzitutto, la soddisfazione perché è stata resa giustizia ad uno che fa il poeta e non certo il capopopolo, ristabilendo i limiti oggettivi dei reati di opinione. In secondo luogo, rimane l’amarezza per aver costretto per oltre tre anni a difendersi uno che non aveva motivo alcuno per difendersi da un’accusa del genere.

In ultimo, c’è da farsi una domanda imbarazzante, almeno per alcuni: quanto è costato un tal processo alle casse dello Stato ? Facciamo un po’ di conti, sia pure in modo approssimativo. Lo stipendio medio di un impiegato nella cancelleria di un Tribunale si aggira sui 1200 euro al mese; quello di un magistrato di media anzianità in funzione di Pubblico ministero, sui 3500 euro al mese; quello di un magistrato giudicante lo stimiamo per comodità di calcolo identico; restano i carabinieri per le indagini, i notificatori, gli assistenti di udienza, per cui si stima uno stipendio medio simile a quello degli addetti in cancelleria; più ovviamente le spese vive, carta, fotocopie, benzina, ecc. Ad occhio e croce, e con molta - inevitabile - approssimazione, ipotizzando che ciascuno dei soggetti sopra citati, nel complesso, abbia dedicato ad occuparsi del caso De Luca ore complessive di lavoro pari ad un solo mese (e mi tengo basso per cautela), la somma del totale dovrebbe, se non erro, superare i ventimila euro: calcolando i contributi si raddoppia. Chi li paga, visto che l’imputato è stato assolto? Risposta: lo Stato, cioè noi. C’è allora qualcosa che non torna, perché non tornano i conti, dal momento che la regola vorrebbe che chi sbaglia paga.

Come è noto, però, nel nostro sistema i pubblici ministeri godono di una strana ed incomprensibile licenza di sbagliare, senza pagarne le conseguenze in alcun modo: ecco perché, fra l’altro, sono indotti ad esercitare l’azione penale anche quando il buon senso lo sconsiglierebbe, tanto non hanno nulla da perdere. Non così nel sistema americano, dove invece la pubblica accusa deve pensarci tre volte prima di agire, valutando le possibilità che l’accusa regga la prova del dibattimento, pena l’autoesclusione dalla professione legale.

Non sarebbe il caso allora, in tempi, di crisi economica galoppante, di ammonire i pubblici ministeri ad agire solo se assolutamente necessario, lasciando perdere i casi palesemente improponibili? Non sarebbe il caso di abolire finalmente la obbligatorietà dell’azione penale?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:37